Quando il lavoro di cura è una scelta delle donne

Una riflessione seria sfata i pregiudizi e valorizza il lavoro femminile non per forza incentrato sulla carriera

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J. Taylor Calderone, statunitense, madre di due figli, è un’autrice che tratta i temi della famiglia, della maternità, del lavoro di cura. Ne fa un discorso schietto e semplice, privo di rivendicazioni, piuttosto di pura «scelta»: la Calderone desidera occuparsi dei propri figli, è stata felice di occuparsi dei genitori anziani quando si sono ammalati, accompagnandoli con affetto sino alla morte, non considera le mura domestiche una prigione.

Ciò che lamenta, piuttosto, è lo sguardo del mondo su di sé, che avverte giudicante e pieno di pregiudizi. La litania che si è sentita rivolgere nel corso degli anni, infatti, da quando ha deciso di lasciare la carriera e occuparsi invece dei propri cari, è sempre la medesima e risuona analoga anche da questa sponda dell’Oceano: «sprechi il tuo talento», «butti via i sacrifici che hai fatto fino a ora», «cos’hai studiato a fare?», «quindi hai deciso di stare a casa a fare niente?».

Alzi la mano la casalinga sotto i cinquant’anni, ma forse pure più matura, che non si è sentita rivolgere osservazioni e domande analoghe. Come se fosse oggettivamente e realisticamente impossibile che si tratti di una scelta.

J. Taylor Calderone affronta l’argomento in un articolo pubblicato sul sito web dell’Institute for Family Studies (IFS), partendo dalla propria esperienza personale ma allargando la prospettiva a un campo più ampio. In Bentornata a casa: la scelta di una donna di dare la priorità al lavoro di cura invece che alla carriera, l’autrice non pretende di indicare a nessun’altra donna la strada da percorrere, come la più giusta, cosa che invece abitualmente fa chi l’accusa di interpretare il ruolo di mogliettina anni 1950. Semplicemente afferma ciò che è stato ed è meglio per sé, per la propria famiglia, senza la pretesa di imporre nulla, ma di far riflettere.

La Calderone prende le mosse da una constatazione e insieme da un desiderio: «[…] quando la pandemia di COVID-19 ha colpito la nostra nazione», scrive, «la traballante infrastruttura di assistenza nazionale ha iniziato a crollare e i bulloni arrugginiti che tenevano insieme i pezzi si sono spezzati. Data questa esperienza collettiva, abbiamo un’opportunità unica per riscrivere questa “colonna sonora” femminista, per rimuovere la stigmatizzazione della scelta delle donne di dare la priorità al caregiving rispetto all’avanzamento della carriera personale e per riconoscere il lavoro di caregiving come una ricerca altrettanto preziosa». Il caregiving, il «lavoro di cura», cioè, come la chiave di volta della società.

Perché se la società di oggi è molto diversa da quella degli anni 1950 di cui si diceva, «ciò che non è cambiato tra gli anni 1950 e oggi è che le persone più vulnerabili hanno ancora bisogno di qualcuno che si prenda cura di loro». E a chi si riempie la bocca di parole rispetto al progresso, all’inclusione, alla mobilità sociale, alla discriminazione razziale e sessuale, l’autrice risponde descrivendo la realtà quale effettivamente essa è, negli Stati Uniti d’America come nelle grandi città italiane. «Con l’eccezione di coloro che hanno la fortuna di avere l’aiuto della famiglia», afferma giustamente, «andare al lavoro richiede che paghiamo qualcun altro che si prenda cura dei nostri cari. Il lato negativo di questa “colonna sonora” femminista è che mentre le donne (istruite, ricche, bianche) vanno al lavoro, lasciano le proprie responsabilità di cura ad altre donne (non istruite, povere, spesso appartenenti a minoranze e che non sempre possono permettersi un’assistenza adeguata per le proprie famiglie)».

Anche trascurando il fatto che talvolta l’affidare ad altri il caregivng dei propri cari costa più dell’ammontare dello stipendio, negli Stati Uniti come in Italia, fra asili nido, tate e badanti più o meno specializzate, ciò che pare sfuggire ai detrattori delle donne che desiderano «stare a casa» è proprio la dimensione della scelta che esse compiono, forse in nome di un bene maggiore.

«E se invece del successo professionale», si chiede infatti la Calderone, «il successo fosse calcolato da un contributo a una (o forse la ) missione umana più grande? […] Una branca dell’epigenetica studia l’effetto dei caregiver dei bambini piccoli sul loro futuro. Il Center on the Developing Child della Harvard University conclude che le esperienze della prima infanzia “causano adattamenti epigenetici che influenzano se, quando e come i geni rilascino le istruzioni per costruire le possibilità future di salute, abilità e resilienza”». 

Più di una volta «iFamNews» si è occupato di crisi demografica, attribuendone le cause non solo a fattori economici, ma anche e soprattutto a motivazioni culturali, in primis la svalutazione della famiglia e dei legami che la tengono unita e ancorata al tessuto sociale. Uno di questi è il lavoro di cura, che spesso resta ancora appannaggio femminile non solo e non necessariamente per obbligo, ma anche per scelta. Presupporre che una donna che «resta a casa» sia obbligata a farlo, che preferire crescere i propri figli invece del PIL sia da “poverette ignoranti”, come ha inteso addirittura il presidente francese Emmanuel Macron in un discorso ormai celebre di qualche anno fa, questo è realmente discriminatorio nei confronti delle donne. Perché le donne, no, non possono «essere tutto e avere tutto» e soprattutto, se ci riflettono, certamente non vogliono essere soltanto un numero a bilancio per far quadrare i conti dello Stato.

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