Perché l’Ungheria ha detto no al trattato contro la violenza sulle donne

Le ragioni vere di un voto che sennò, a dirla com’è stata detta, sembrerebbe la surreale vicenda di un abuso

Il parlamento ungherese, a Budapest

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Last updated on Maggio 29th, 2020 at 09:53 am

Cosa significa davvero che, pochi giorni fa, il parlamento ungherese non abbia ratificato la Convenzione di Istanbul sulla violenza contro le donne? Perché, detta così, o detta come l’han detta i giornali, parrebbe che il governo di Viktor Orbán sia favorevole alla violenza di genere…

Dunque, la Convenzione di Istanbul è il primo trattato internazionale giuridicamente vincolante che si propone di contrastare la violenza contro le donne. È stato adottato nel 2011 dal Consiglio d’Europa e fa parte dell’impianto normativo italiano dal 2013, grazie alla ratifica avvenuta con la Legge 77 del 27 giugno di quell’anno. Il documento impone agli Stati che la sottoscrivono di garantire una risposta giuridica adeguata a individuare e a perseguire i crimini connessi alla violenza domestica, ma anche allo stalking, ai matrimoni forzati e alle mutilazioni genitali femminili. Ora, anche l’Ungheria, nel 2014, ha sottoscritto formalmente il trattato, ma adesso, con 115 voti a favore, 35 contrari e 3 astenuti, dice «no». Perché?

Perché stante che qualsiasi forma di violenza nei confronti delle donne è esecrabile e deve essere perseguita con ogni mezzo e con massima severità in qualunque Paese, la legislazione ungherese prevede già misure di contrasto a questo tipo di abuso, che ha ricevuto definizione statutaria indipendente fin dal nuovo Codice penale (promosso tra l’altro dallo stesso Orbán) del 2013.

In particolare, due sono però i punti che il parlamento di Budapest non vuole avallare.

Il primo è connesso all’Articolo 3 sez. c della Convenzione, che sottintende una definizione di gender in senso assai più sociale che non biologico, negando di fatto che i generi siano due e aprendo invece a tutta la costellazione delle persone cosiddette non binarie, secondo l’accezione delle lobby LGBT+. Ciò si oppone però alla Costituzione ungherese, specialmente nel punto in cui essa definisce il matrimonio l’unione di un uomo e di una donna, gli unici due generi riconosciuti (ovvio), escludendo dall’istituto matrimoniale qualsiasi altra possibilità. Per questa ragione il deputato Lorin Nacsa, portavoce del Partito Popolare Cristiano Democratico, ha dichiarato che la Convenzione pratica «[…] un approccio ideologico contrario alla legge ungherese e alle convinzioni del governo». Al che David Vig, direttore della sezione ungherese di Amnesty International, ha protestato contro la decisione del parlamento, sollevando la questione del presunto aumento delle violenze domestiche nel contesto dell’epidemia di coronavirus.

Il secondo punto attiene invece a un’altra questione, fondamentale per il governo magiaro e per la sua politica in tema di immigrazione. Al capitolo VII, articolo 60, infatti, la Convenzione prevede una sorta di diritto d’asilo “automatico” per le vittime di violenza di genere, aprendo potenzialmente le porte (e le frontiere) a un gran numero di persone che, sulla base di tale diritto, si prevede che possano riversarsi nel Paese.

In entrambi i casi, quindi, la sacrosanta battaglia in favore dei diritti delle donne e a protezione della loro sicurezza si rivela, a uno sguardo più attento, come un vero e proprio cavallo di Troia che farebbe penetrare in Ungheria, e tramite la sua Costituzione, posizioni ben lontane da quelle che porta avanti il suo governo, legittimamente eletto.

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