Maya Forstater, finalmente, può mettere la parola fine alla vicenda giudiziaria che l’ha vista coinvolta negli ultimi tre anni e tornare a occuparsi dei propri affari.
Nel marzo 2019 la donna, visiting fellow con un contratto di consulenza in ambito fiscale nell’ufficio londinese del Centre for Global Development, un think tank statunitense con sede a Washington che si occupa di sviluppo internazionale, è stata licenziata a causa di alcuni tweet giudicati «omofobici». Commentando una proposta avanzata dal governo britannico in relazione alla autoidentificazione di genere, che conteneva modifiche al Gender Recognition Act del 2004, la Forstater aveva infatti scritto, semplicemente, che «gli uomini non possono trasformarsi in donne».
Licenziamento immediato e immediato ricorso della professionista al tribunale del lavoro di competenza, appellandosi all’Equality Act, la legge che dal 2010 protegge i cittadini britannici dalle discriminazioni, anche di natura religiosa. Niente da fare, le parole «maschio e femmina li creò», contenute nel capitolo primo, al versetto 27, del libro della Genesi, sono state considerate hate speech dal giudice James Tayler e Maya Forstater ha perso la causa di primo grado, nel dicembre 2019, mentre quanto ha affermato nei tweet è stato definito non «degno di rispetto in una società democratica».
Non si è rassegnata, Maya, e ha presentato ricorso in appello, impugnando la sentenza. Nel giugno 2021, al termine dell’udienza per costituzione dei precedenti, il giudice Akhlaq Choudhury, presidente del tribunale, ha ritenuto che la sua convinzione rientrasse effettivamente nell’ambito protetto dall’articolo 9 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ed era quindi coperta anche dall’Equality Act britannico. Se le cosiddette «opinioni critiche di genere» possono essere «profondamente offensive e persino angoscianti» per alcuni, ha concluso il giudice, tuttavia «sono convinzioni che sono e debbono essere tollerate in una società pluralista».
Il caso di Maya Forstater, dunque, è tornato in tribunale nei giorni scorsi, per stabilire se il licenziamento della professionista da parte del datore di lavoro sia stato legittimo, oppure discriminatorio nei suoi confronti. Una settimana fa, finalmente, è stata emessa la sentenza.
Maya Forstater ha vinto, il tribunale infatti ha concluso che «[…] i tweet sono stati una parte sostanziale del motivo per cui alla signora Forstater non è stato più offerto il lavoro e le prove fornite dall’appellante, lungi dal provare il contrario, supportano la conclusione» del licenziamento illecito. Non dichiaravano nulla di falso o di «omofobico», questi tweet, ma erano fondati sul semplice buon senso, esprimevano una posizione legittima e anche il loro tono, talvolta ironico, è stato ricondotto all’assoluta bonarietà dal giudice, che ha aggiunto che «prendere in giro o fare satira sul punto di vista opposto fa parte della moneta comune della discussione». Basta “vittimismi” inutili, insomma, e nessuna «omofobia» latente o patente nelle parole della Forstater.
La vicenda giudiziaria di cui è stata vittima le è costata, per ora, 300mila sterline, parte delle quali le sono giunte da numerosi donatori anonimi che hanno confessato di essere sottoposti, nei luoghi di lavoro, a discriminazioni analoghe a quelle raccontate fin qui.
Naturalmente, la donna è lieta e sollevata della conclusione del processo. «La sentenza d’appello [l’anno scorso] ha stabilito un precedente importante», afferma. «Ma questo giudizio traccia una ulteriore linea cruciale nella sabbia. Dice che va bene dire cose che alla gente non piaceranno, in una società democratica, e che dovremo abituarci a farlo di nuovo, e continuare ad andare d’accordo», senza che l’ortodossia transgender imponga bavagli a chi, legittimamente, la pensa in modo diverso.
«Abbiamo bisogno di un grande cambiamento culturale nelle organizzazioni ora», dichiara al quotidiano britannico The Guardian, «perché temo che i dipartimenti delle risorse umane siano stati formati per mettere una caratteristica protetta [vale a dire la riassegnazione di genere] al di sopra di tutte le altre».
Fra l’altro, conclude Maya Forstater, il suo caso potrà aiutare altre persone, soprattutto altre donne a esprimersi più liberamente su questi temi, senza sentirsi perdenti in partenza rispetto a una narrazione LGBT+ che impedisce di parlare a suon di insulti e minacce, come ha dimostrato più volte il caso di J.K. Rowling, autrice della serie fortunata del maghetto Harry Potter. «Dopo la sentenza dello scorso anno», dice la Forstater, «ho sentito persone che mi dicevano: sono un assistente sociale, sono un insegnante, ho dati e ora posso chiedermi se, per esempio, le politiche di protezione dell’infanzia possono funzionare. Altri mi hanno detto che il mio caso ha annullato i procedimenti disciplinari a loro carico, perché ha fatto riflettere il loro datore di lavoro due volte».
È orgogliosa del risultato ottenuto, Maya, che oggi è fra l’altro direttore esecutivo dell’organizzazione Sex Matters, di cui è anche co-fondatrice. «Sono stata trattata male. Il mio posto di lavoro mi era ostile. Ma ho ribaltato [quanto mi stava accadendo] e l’ho usato per dare fondamento a questo principio, che proteggerà molte persone in futuro».
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