Last updated on Agosto 30th, 2021 at 03:23 am
L’epoca attuale, con accelerazione particolare nell’ultimo decennio, assiste senza alcun dubbio alla messa in crisi progressiva, da parte di una certa narrazione ideologica, soprattutto da parte della Sinistra sedicente liberal, del concetto di famiglia naturale, composta da un uomo, da una donna e dai figli, e specialmente del concetto stesso di madre.
Oggi, sorprendentemente, la madre viene da alcuni considerata un «concetto antropologico» e in quanto tale “facilmente” sostituibile: per esempio dal «genitore 1» o «genitore 2», a scelta, se si tratta di un documento o modulo da compilare. Da una «persona che mestrua» quando si voglia aderire con insistenza caricaturale ai dettami del culturalmente corretto. Da un «papà cavalluccio» quando a partorire sia una donna che ha effettuato solo in parte la transizione di genere, mantenendo pertanto il proprio apparato riproduttivo.
La figura femminile e materna, chiamata con il suo nome esatto, è invece assolutamente insostituibile: per questo non è difficile accostarsi con interesse a un libro che, già dal titolo, sceglie il medesimo registro di chiarezza e insostituibilità, Madri, madri mancate, quasi madri. Sei storie medievali. L’autrice è Maria Giuseppina Muzzarelli, docente di Storia medioevale, Storia delle città e Storia e patrimonio culturale della moda nell’Università di Bologna, già vicepresidente della Regione Emilia-Romagna e assessore al dipartimento Europa, Cooperazione internazionale e Pari opportunità, in quota Partito Democratico, nel biennio 2009-2010.
Il libro è «un affresco della multiforme condizione femminile nel Medioevo che testimonia la capacità di tante donne di reinventare il loro destino» che illustra alcune vicende esemplari di donne colte nel rapporto con la maternità nell’epoca per tutti, inopinatamente, “buia”.
C’è Dhuoda, nel secolo IX, il cui figlio Guglielmo fu consegnato come ostaggio al re dei Franchi (e futuro imperatore) Carlo il Calvo (823-877). C’è – due secoli dopo – Matilde di Canossa (1046-1115), nobildonna potentissima ma delusa nelle sue aspettative di maternità. C’è santa Caterina da Siena (1347-1380), che, pur non avendo figli, agisce e scrive da “grande madre” italiana. C’è la scrittrice e poetessa Cristina da Pizzano (1364-ca.1430), poi divenuta francese con il nome di Christine de Pizan, «impegnata nell’ultimo scorcio di Medioevo a destreggiarsi tra i figli e la carriera». C’è Margherita Datini (1360-1401), «che cresce come fosse figlia propria una bambina che il marito ha avuto da una schiava». E c’è infine un’altra scrittrice, Alessandra Macinghi Strozzi (1406-1471), vedova di un esule, che fa da madre e da padre a 5 figli.
Lettura piacevole, insomma, oltre che testo approfondito benché gradevolmente divulgativo, che si inserisce in quel filone della medioevistica che rivaluta e che pone in giusta prospettiva un’epoca storica che, sulla scia delle mistificazioni di stampo illuminista, è stata accusata per secoli di oscurantismo, di abbrutimento seguito al crollo dell’impero (quello per antonomasia, l’impero romano), di chiusura e di sottosviluppo. I «secoli bui», contrapposti forzosamente e forzatamente tanto al passato quanto ai tempi considerati ben più luminosi dell’Umanesimo e del Rinascimento.
Una figura di spicco di tale filone è per esempio Régine Pernoud (1909-1998), storica francese, autrice fra gli altri di Medioevo. Un secolare pregiudizio e La donna al tempo delle cattedrali. Civiltà e cultura femminile nel Medioevo, che molto si è occupata delle donne vissute in quell’epoca.
Anche la Muzzarelli parla di donne, come si è detto, e in particolare di madri. Con una ricostruzione meticolosa delle vicende quotidiane di queste sei donne, tratte da epistole, carteggi, conti di casa, ma sempre tenendo ben presente lo sfondo di quelle storiche, più ampie e più grandi di loro.
Non si tratta in ogni caso, evidentemente, di figure di poco rilievo nelle società in cui si trovarono a vivere, di popolane o analfabete, al contrario. Basti pensare a santa Caterina da Siena, religiosa, teologa e mistica, dottore della Chiesa, autrice fra l’altro di un epistolario ricchissimo. Non madre in senso proprio, poiché aveva rifiutato con decisione il matrimonio e la maternità, ma, come scrive l’autrice, convinta di «[…] un progetto ambizioso: prendersi cura di tutti i figli di Dio».
O a Matilde di Canossa, magna comitissa e donna di Stato, potente tanto da umiliare l’imperatore Enrico IV (1050-1106), madre questa volta mancata nonostante il desiderio, forse non per sterilità propria, ma per via dei matrimoni sfortunati.
O infine a Christine de Pizan, che addirittura di cultura e di scrittura viveva e, rimasta vedova, facendo loro da madre e da padre, manteneva i propri figli. Scrittrice, poetessa, miniaturista, è stata definita talvolta la «la prima storica laica», nonché «femminista» ante litteram.
È possibile affermare, in realtà, che la rilettura del Medioevo svolta dalla Muzzarelli attraverso la narrazione delle vicende di queste donne sia tutta in senso “femminista”, se si intende con tale termine la sottolineatura che si tratti di «[…] donne in azione oltre la sfera domestica, protagoniste oltre i limiti imposti dal tempo in cui vissero al loro genere».
Una nota se così si può dire forzata, in questo libro, compare nel capitolo dedicato a Margherita Bandini, o Datini secondo il cognome del marito, che sul finire del Trecento, non madre biologica poiché sterile a causa a quanto pare di endometriosi, madre fu però di Ginevra, una figlia che il marito ebbe da una schiava di casa, Lucia (anche il termine usato, «schiava», dati tempo e luogo della vicenda incuriosisce, e invita all’approfondimento).
Ecco, pare un poco insistita, un poco pretestuosa, la definizione in questo caso di «maternità surrogata» e la descrizione della famiglia medioevale come di una sorta di “allegra famiglia allargata”, non nel senso di famiglia ampia e comprensiva anche di servi, famigli, parenti lontani e non abbienti accolti in casa, bensì quasi di un insieme disordinato di coabitanti.
Come sempre non rende giustizia ai protagonisti della storia interpretare le loro vicende alla luce dell’epoca in cui ci si trovi, contestualizzandole fuori tempo e leggendole con la lente di un sentire attuale che forse toglie loro ricchezza e spessore.
È questo, infatti, uno dei rischi di quel “culturalmente corretto” da cui non a caso si è partiti.
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