Last updated on Febbraio 24th, 2021 at 08:05 am
I fatti risalgono al mese di maggio del 2012, ma la vicenda si è conclusa solo una decina di giorni fa. La Corte di Cassazione ha sottoposto a provvedimento disciplinare un magistrato che non ha concesso a una donna di lasciare gli arresti domiciliari al fine di recarsi in ospedale per abortire. E la cosa si è conclusa con una censura, che conferma il giudizio rilasciato precedentemente dal Consiglio superiore per la magistratura (CSM) con sentenza 88/2020 e che sarebbe motivata dal fatto che la decisione presa a suo tempo dal magistrato «non rispetta la dignità della persona e viene meno ai […] doveri di imparzialità e correttezza».
Il 4 maggio 2012, infatti, davanti alla richiesta della donna di allontanarsi dalla propria abitazione, dove era agli arresti domiciliari, per sottoporsi a interruzione volontaria della gravidanza in una struttura ospedaliera pubblica, il magistrato di sorveglianza del tribunale di Brescia aveva negato il permesso, a suo giudizio «non ravvisandosi i presupposti» in base alla normativa vigente. Così si legge nella sentenza di Cassazione 3780, depositata in Cancelleria il 15 febbraio di quest’anno.
Il 22 maggio 2012 la detenuta ha presentato una seconda istanza e il magistrato ha pertanto rimesso il fascicolo alla presidenza della Sezione, poiché intendeva «astenersi dall’emissione del richiesto provvedimento per ragioni di coscienza e ritenendo che il diritto all’obiezione di coscienza debba essere riconosciuto anche agli appartenenti all’ordine giudiziario».
Tanto è bastato perché il CSM prima e la Corte di Cassazione poi ravvedessero nel suo comportamento una interpretazione del Codice «[…] intenzionalmente e palesemente in violazione di legge, strumentalizzata al fine di impedire all’istante di eseguire il programmato intervento che lo stesso riteneva non praticabile in base ai suoi principi religiosi». “Istante”, cioè la detenuta richiedente, che ne avrebbe patito «[…] una lesione dei diritti personali […] e, nella specie, del diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost.».
Niente paura, la donna è poi riuscita nel proprio intento e nessun bambino è venuto al mondo per “colpa” di questo magistrato tanto tignoso e irragionevole. Semplicemente l’intervento è stato spostato del 9 al 23 maggio, solamente più vicino alla scadenza fissata al 2 giugno richiesta per rispettare il termine massimo dei novanta giorni di gravidanza, imposto dalla Legge 194/1978 per garantire alle donne il “diritto” all’aborto.
Insomma, l’aborto è stato considerato dalla Corte di Cassazione come una di «[…] quelle indispensabili esigenze di vita la cui sussistenza consente l’autorizzazione ad assentarsi dal luogo di detenzione domiciliare» e come «[…] diritto personalissimo che non tollera limitazioni a causa dello stato di detenzione». Esigenze “di vita”, è scritto proprio così: verrebbe da chiedersi la vita di chi.
Il magistrato è stato giudicato colpevole di illecito disciplinare per comportamento deontologicamente scorretto, mentre è stato ammesso e salvaguardato esclusivamente il suo diritto a rimettere alla presidenza della Sezione il fascicolo relativo alla richiesta della detenuta.
A questo proposito va ricordato che, per quanto riguarda l’obiezione di coscienza dei magistrati, esiste una pronuncia della Corte Costituzionale, la 196 del 1987, emessa proprio in relazione alla Legge 194/1978 e in particolare alla facoltà per le minorenni di procedere all’interruzione di gravidanza senza il consenso dei genitori.
Secondo tale sentenza, come ha ricordato Giacomo Rocchi, consigliere della Corte suprema di Cassazione, nel convegno Coscienza senza diritti? del 2017, «[…] per segnalare la necessità di una tutela piena della coscienza dei magistrati e l’equilibrio nell’esercizio della giurisdizione – la Corte aggiungeva un accenno (con il sapore di un invito) alla possibilità di adottare “adeguate misure organizzative nei casi di particolare difficoltà”, così da non destinare i magistrati la cui coscienza si oppone alle procedure abortive al ruolo di Giudice tutelare».
In buona sostanza è indispensabile su temi tanto “sensibili” e questioni tanto “delicate” assumere misure organizzative idonee affinché vengano ottemperati entrambi i “diritti”: quello della donna di disfarsi del bambino che porta in grembo e quello del magistrato di non rendersi in qualche modo complice di un omicidio.
E non si può tacere di un altro fatto. In realtà, che l’aborto sia un “diritto” soggettivo non è poi così pacificamente accettato e digerito. È certamente una “situazione giuridicamente rilevante”, tanto per continuare con il registro del Diritto e della giurisprudenza, ma sempre di sopprimere un essere umano si tratta.
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