Negli Stati Uniti, gli ospedali sarebbero coinvolti in pratiche così inquietanti da mettere in discussione la dignità stessa della vita umana. Secondo una recente indagine della Health Resources & Services Administration (HRSA), un’organizzazione per l’approvvigionamento di organi (OPO) operante nella regione Kentucky-Ohio-West Virginia ha consentito l’inizio del processo di donazione di organi mentre i pazienti mostravano ancora segni di vita.
La revisione dell’HRSA ha esaminato 351 casi in cui la donazione di organi è stata autorizzata ma alla fine non eseguita. In tale campione, il 29,3% (103 casi) includeva “caratteristiche preoccupanti”, tra cui 28 pazienti che “potrebbero non essere deceduti” quando sono iniziate le procedure di prelievo di organi. I risultati evidenziano un cambiamento inquietante: invece dell’etica del paziente al primo posto, il sistema sembra aver dato la priorità alla tempistica del prelievo di organi. In un caso descritto in dettaglio dal The New York Times, un donatore sottoposto al protocollo noto come “donazione dopo morte cardiocircolatoria” (DCD) ha ripreso a battere il cuore a metà procedura dopo che era stata praticata l’incisione.
Questi eventi sono particolarmente allarmanti se visti nel contesto dei paesi in cui è misurata l’eutanasia. Nel protocollo DCD descritto, i pazienti spesso ricevono un “ordine di non rianimazione” (NPR) prima del prelievo di organi: la decisione è di non rianimare il paziente, non perché il recupero sia impossibile, ma perché gli organi devono essere in condizioni vitali. L’HRSA ha osservato che molti di questi pazienti sarebbero, in circostanze normali, candidati alla rianimazione, eppure sono stati essenzialmente tenuti in uno stato di limbo fino a quando gli organi non sono stati prelevati.
Un esempio toccante racconta di una donna di nome Misty Hawkins: dopo un episodio di soffocamento è stata dichiarata improbabile la sua guarigione, è stata posta sotto respiratore e quindi organizzata per la donazione di organi secondo il protocollo DCD. Nonostante l’invocazione della morte, quando i chirurghi le hanno aperto il torace, il suo cuore batteva e respirava di nuovo. Eppure il protocollo è andato avanti, con i suoi genitori che, secondo quanto riferito, non sono stati pienamente informati di ciò che è accaduto.
Da un punto di vista pro-life, le implicazioni non potrebbero essere più nette. L’idea che la vita sia trattata come secondaria rispetto alla vitalità degli organi mina la sacralità di ogni essere umano, nato e non nato. Una cultura che consente che i pazienti siano dichiarati effettivamente morti per il bene degli organi, anche mentre persistono segni di vita, è una cultura che scivola pericolosamente verso l’utilitarismo, valutando le parti del corpo al di sopra delle persone.
L’etica medica deve riunirsi attorno a un imperativo chiaro: proteggere prima i vulnerabili. Gli organi non devono dettare i tempi della morte. Le famiglie devono essere pienamente e onestamente informate. E nessun protocollo di “donazione” dovrebbe mai essere autorizzato a precedere l’inequivocabile fine della vita. Gli ordini correttivi dell’HRSA all’OPO sono benvenuti, ma segnalano quanto il problema sia diventato profondamente radicato.
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