Last updated on Febbraio 17th, 2020 at 04:16 am
C’è in Romania un inverno ancor più gelido di quello meteorologico. È l’inverno demografico. Nel 2019, con 178.230 nuovi nati, si è toccato il tasso di natalità più basso dal 1967. Netto calo anche rispetto al 2018: sono nati 12.040 bambini in meno.
Ma il crollo della popolazione ha origini lontane, legate anche alle scelte attuate dai governi nel dopoguerra, quando la Romania adottò politiche simili a quelle degli altri Paesi del blocco comunista (nel 1920 fu l’Unione Sovietica la prima ad autorizzare l’aborto e solo nel 2015 la Cina ha modificato la politica del “figlio unico”, permettendo alle coppie una seconda nascita). Da subito fu infatti deciso di sostenere un forte controllo delle nascite, che presto si tramutò in un costante ricorso all’interruzione volontaria di gravidanza portando la Romania sull’orlo del baratro: già nel 1966 la media di figli per donna era scesa a 1,9, sotto quella che viene definita la soglia di rimpiazzo, fissata a 2,1.
Con l’ascesa al potere di Nicolae Ceaușescu (1918-1989) ‒ divenuto nel 1965 segretario del Partito Romeno dei Lavoratori, che ribattezzò Partito Comunista Romeno, e nel 1967 presidente del Consiglio di Stato ‒ le cose cambiarono: pur attuando uno stretto controllo delle nascite, il despota lo fece in modo opposto, puntando su un incremento nazionalistico della natalità. Verso la fine del 1966 l’aborto indotto venne dichiarato reato penale e le nascite raddoppiarono: da 275.000 nel 1965 e nel 1966 a 525.000 nel 1967 e nel 1968. Il regime di Ceausescu voleva aumentare la potenza del Paese, e quale mezzo migliore dell’incremento delle nascite? Con il decreto 770 dell’ottobre 1966 il regime, oltre a vietare l’aborto, introdusse così una tassa aggiuntiva per tutti gli uomini e le donne che, superati i 25 anni, fossero rimasti senza prole. Le madri che avevano dieci figli ricevevano una medaglia d’oro, un’automobile donata dallo Stato e avevano diritto a viaggiare gratis sui mezzi pubblici. La repressione dell’aborto senza la concreta attuazione di politiche a favore della natalità, che non fossero la retorica, e senza una promozione culturale per la difesa della vita oltre i criteri puramente quantitativi, non diedero però frutti duraturi: già negli anni 1980 il numero delle nascite iniziò a calare, mentre cresceva quello degli aborti clandestini. Accanto a questi, crebbe a dismisura il numero dei minori abbandonati, spesso destinati a morire per strada o a trascorrere l’infanzia e l’adolescenza negli orfanotrofi.
Legalizzato l’aborto il 26 dicembre 1989, con il decreto del ministero della Salute n. 605/89, nel 1996 la Romania raggiuse il triste record di Paese europeo con il più alto numero di aborti. Infatti, secondo le statistiche rese note dall’Organizzazione Mondiale della Sanità proprio nel marzo di quell’anno, il numero degli aborti superava di tre volte quello delle nascite, e aumentava anche il numero delle donne tra i 15 e i 49 anni di età che avevano fatto ricorso all’aborto anche più di cinque volte nel corso della vita.
Schiacciata da un favor mortis che la opprime, oggi la Romania si ritrova ad affrontare altri due problemi: un tasso di natalità tra i più bassi d’Europa e un tasso di mortalità tra i più alti. Nel 2016 Eurostat, l’Ufficio statistico dell’Unione europea, ha fotografato con precisione il tasso di mortalità della Romania: 13 per 1.000 residenti. Un paragone? Irlanda e Cipro, classificatisi con il tasso di mortalità più basso, si fermano a 6,4 per 1.000 residenti. In Romania anche il saldo naturale della popolazione non è andato bene: – 3,5 per mille residenti. Sono insomma maggiori le morti delle nascite, una tendenza invariata dal 1992, con la diminuzione della popolazione che ha segnato un nuovo record negativo: – 6,2 per mille residenti. A pesare c’è anche l’aspettativa di vita, che nel 2016 per gli uomini si fermava a 67 anni contro i 77 dell’Italia. Va meglio alle donne, la cui aspettativa di vita è salita a 75 anni, tuttavia ancora lontana da quella delle donne italiane, attestata a 83 anni.
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