In Islanda è stato innescato un piccolo, ma significativo cortocircuito. L’aborto eugenetico dilaga ormai in tutto il mondo, tuttavia, quando questo rigarda bambini affetti da sindrome di Down, la cosa tornerebbe piuttosto impopolare persino tra le scrivanie polverose dell’Organizzazione delle Nazioni Unite.
È dunque accaduto che la piccola repubblica subartica abbia subito un richiamo da parte di due Paesi asiatici che l’hanno esortata a combattere la discriminazione contro le persone affette da sindrome di Down, incentivando il sostegno a tutte le forme di disabilità.
L’Islanda attirò l’attenzione della stampa internazionale, quando, nel 2017, l’emittente radiotelevisiva statunitense CBS News riferì che il Paese era ormai vicino all’obiettivo di «sradicare le nascite con sindrome di Down». Ne scaturì un’indignazione generalizzata che costrinse il governo di Reykjavik a puntualizzare come quell’obiettivo non fosse affatto nel proprio programma politico. Rimaneva però il dato inconfutabile che, nell’isola, la percentuale di bambini con sindrome di Down abortiti era prossima al 100%.
La strigliata di due Paesi asiatici
In un incontro delle Nazioni Unite sui diritti umani, svoltosi il 25 gennaio a Ginevra, soltanto due governi avevano criticato l’Islanda sulla questione della sindrome di Down. Il delegato delle Filippine affermava che il governo islandese avrebbe dovuto «adottare misure immediate ed efficaci per combattere la discriminazione contro le persone con disabilità, in particolare quelle affette da sindrome di Down, e rafforzare le campagne di sensibilizzazione dell’opinione pubblica per difenderne i diritti, fornendo supporto e assistenza completi alle persone interessate e alle loro famiglie». L’altro Paese che ha esortato l’Islanda a combattere tale discriminazione è l’Iran.
Le critiche alle autorità islandesi sono giunte in occasione dell’Universal Periodic Review (UPR), il programma delle Nazioni Unite che sottopone a turno ogni Paese membro al vaglio periodico degli altri Paesi membri in tema di diritti umani, ricevendo raccomandazioni specifiche su come incentivarne la tutela. Si tratta di raccomandazioni non vincolanti, alle quali il Paese destinatario può rispondere «sostenendole» o «notandole».
All’UPR prendono parte anche organizzazioni non governative e altri soggetti a vario titolo interessati. Il Center for Family and Human Rights, che pubblica settimanalmente il Friday Fax, per esempio, ha presentato un rapporto congiunto con la branca statunitense della Jérôme Lejeune Foundation per criticare l’Islanda proprio in merito alla discriminazione verso i bambini con sindrome di Down.
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Da parte propria il governo di Reykjavik si è inserito nel dibattito, difendendo la propria legge sull’aborto, già particolarmente permissiva. La legge vigente fino al 2019, del resto, permetteva di abortire in qualunque momento, nel caso in cui la diagnosi sul bambino concepito fosse di sindrome di Down. Da tre anni a questa parte, la facoltà di abortire è stata estesa a qualunque diagnosi di anomalia fetale. I più critici evidenziano che l’unico ospedale con reparto maternità di tutta l’Islanda farebbe pressioni alle donne affinché compiano test prenatali.
Quando è stata chiamata a propia volta a porre rilievi ad altri Paesi sull’UPR, l’Islanda è sempre stata il Paese più assertivo nel promuovere l’aborto, avendo raccomandato di liberalizzare le normative per ben 44 volte soltanto nel terzo ciclo. Al secondo posto, molto distaccata, si pone la Francia con 26 raccomandazioni. La maggior parte dei paesi (1162 su 193), comunque, non hanno mai rivolto raccomandazioni di questo tipo. Altri Paesi al mondo in cui il tasso di abortività di bambini con sindrome di Down è molto alto sono la Danimarca (98%), il Regno Unito (90%), mentre negli Stati Uniti d’America, dove però i dati sono più approssimativi, si stima tale tasso sia intorno al 65%.
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