Last updated on Novembre 9th, 2021 at 11:39 am
Fu attorno al secolo VIII che la Chiesa Cattolica fece del 1° novembre il Giorno della commemorazione di tutti quei santi che non avevano alcuna memoria particolare in alcun altro giorno specifico dell’anno. La Chiesa fa sempre così: si sovrappone alle feste precristiane, esaltando il significato religioso delle stesse e sublimandolo nell’annuncio della Buona Novella. La Messa del Giorno dei santi si celebrava la sera della vigilia preceduta da una veglia e così l’«Allhallowsmas» divenne la «All Hallows Eve», quindi «Hallowe’en».
Ora, la notte del 31 ottobre nel calendario celtico segna la solennità di Samhain. Il dizionario irlandese-inglese dell’autorevolissima Irish Texts Society lo definisce così: «[…] festa dei morti in era pagana e in era cristiana, indicante la fine dei raccolti e l’inizio della stagione invernale che dura fino a maggio, durante la quale le truppe (specialmente i Fianna) rimanevano acquartierate. Si riteneva che in questo periodo il popolo fatato fosse particolarmente attivo». Nella parlata scozzese è detto anche “Hallowtide”, festa di “tutte le anime” evidentemente defunte. L’originale gaelico viene ricostruito come composizione di “Sam” e di “Fuin”, ossia “fine dell’estate”. Ma, prosegue il dizionario dell’Irish Texts Society, «[c]ontrariamente alle informazioni pubblicate da molte organizzazioni, non vi è prova archeologica o letteraria indicante che Samhain fosse una divinità. Gli dèi celtici dei morti erano Gwynn ap Nudd per i britanni e Arawn per i gallesi. Gl’irlandesi non avevano invece un “signore dei morti” in quanto tale». I celti credevano che alla fine di ottobre i defunti visitassero i vivi sulla terra.
Fra Ognissanti e Samhain, Hallowe’en sopravvisse in Irlanda più come folclore che come resto pagano. E quando nel secolo XIX iniziò il penoso esodo degl’irlandesi verso il Nuovo Mondo, spinti soprattutto dalla fame, Hallowe’en sbarcò in America.
Ma questa è una storia già raccontata. Ce n’è un’altra, quella dei morti che vengono dopo i santi.
Mi ha sempre incuriosito e attratto il modo in cui nel cattolicissimo Messico si celebra «El Día de los Muertos»: ovvero con caroselli e feste, che certuni potrebbero definire neo-paganesimo o sincretismo. Lì però è forse la festa più importante dell’anno e le celebrazioni per i defunti del calendario liturgico iniziano la sera del 31 ottobre per riecheggiare fino al «Day of the Dead» che si solennizza nella vicina Arizona. Ma non è così. Non è così cultualmente, culturalmente, socialmente, benché qualcuno possa anche scambiare «El Día» per una scampagnata o per una occasione di scempiaggini. È forse perché qualcuno immagina che compiendo nefandezze oggi, Giorno dei morti, la carica malvagia del proprio gesto venga moltiplicata che la Chiesa e le religioni dovrebbero smettere di celebrare i defunti?
Piuttosto è vero il contrario. I modi con cui si celebra da sempre la memoria dei trapassati nel mondo sono innumerevoli e non c’è cultura o popolo che non abbia riti e tradizioni. Anzi, uno dei segni archeologici incontrovertibili dell’ominazione è proprio la cura e il culto dei morti. Uno dei gesti di persecuzione religiosa che la Cina neo-post-nazional-comunista mette in atto contro la propria popolazione, per disprezzo e dileggio, è vietare o svilire le celebrazioni della memoria nei templi degli antenati delle cosiddette folk religion locali.
Continuiamo allora a essere uomini. Peccheremmo altrimenti di lesa democrazia. Come dice infatti splendidamente Gilbert K. Chesterton, nel capitolo 4 di Ortodossia (1932), un capitolo stupendamente intitolato The Ethics of Elfland, cui ogni traduzione non rende mai giustizia fino in fondo, «tradizione significa dare il voto alla più oscura di tutte le classi sociali, ovvero ai nostri antenati. È la democrazia dei morti». Le parole sono pietre. Ci rifletta bene il nostro mondo post-religioso, post-tutto, post-se stesso che produce morti in maniera seriale. Per non finire schiacciato da certe parole-pietre che non è più all’altezza di reggere.