Il «dio verde» contro l’uomo bianco occidentale

Intervista a Giulio Meotti sul suo libro-denuncia dei mali dell’ecologismo radicale

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Manifestazione per il clima a Milano, 2021 - Image from Wikimedia Commons

Lo scrittore inglese Gilbert Keith Chesterton (1874-1936) scriveva: «Chi non crede in Dio non è vero che non crede in niente perché comincia a credere a tutto». Nell’Occidente post-cristiano, in effetti, sembra essersi diffuso un nuovo culto surrogato a quello che Giulio Meotti, giornalista e scrittore, chiama nel suo libro più recente Il dio verde. Non si tratta del feticcio di qualche statuetta dall’aspetto viride, bensì di un’ideologia dominante che ormai permea la cultura e l’agire politico. È un culto – avverte Meotti – che si nutre dell’uomo bianco occidentale.

In un passaggio del libro parli di «convergenza delle lotte». Di cosa si tratta?
Femminismo, antirazzismo, decolonialismo, ecologismo inteso come “guerra santa” ideologica convergono nel creare una grande accusa nei confronti dell’uomo bianco occidentale. Si punta a uno smantellamento dell’identità sessuale attraverso l’ideologia gender, a una demolizione del patrimonio storico dell’Occidente considerato un capitolo di dannazione, a una messa in discussione persino della rivoluzione industriale. È una «convergenza delle lotte», la cosiddetta intersezionalità o, per citare lo scrittore ceco Milan Kundera, ne L’insostenibile leggerezza dell’essere, una «grande marcia»: questo significa oggi essere di Sinistra.

Ma quali sono i presupposti culturali di questa saldatura ideologica?
In una logica razionale, cartesiana non c’è evidenza di una saldatura. Ma nella loro rivendicazione culturale di propaganda, al contrario, queste lotte si sostengono le une con le altre. Lo si è visto a Glasgow, durante le manifestazioni ecologiste mentre era in corso la CoP26, con slogan del tipo «Distruggere il patriarcato non il pianeta». Si parla persino di «femminismo ecologista»: in Francia alcuni politici si definiscono così.

In un passaggio del libro scrivi che, per qualsiasi Paese, raggiungere gli obiettivi green è impossibile «senza sottoporsi a una forma di socialismo, razionamento energetico e bassa crescita economica». Il cosiddetto «Green Deal» europeo, presentato dai suoi fautori come una svolta anche in termini di PIL, è dunque un inganno?
Si pensi a quanto sta accadendo oggi: si vive in una penuria energetica mai vista dalla crisi petrolifera del 1973 seguita alla guerra dello Yom Kippur. E questo perché? Perché si è puntato troppo sulle cosiddette rinnovabili rinunciando a fonti importanti come nucleare e gas. L’Italia, per esempio, si è così trovata costretta a spendere oltre 3 miliardi di euro per calmierare il prezzo delle bollette. Ora l’Unione Europea – Germania a parte – se ne sta rendendo conto e sta facendo marcia indietro.

L’agenda green può allora portarci al socialismo?
Temo che al fondo di questa agenda ci sia una sorta di cupio dissolvi. Cioè cavalcare la cosiddetta decrescita. E la decrescita, obiettivo principale di questo tipo di ecologismo, è il socialismo. Sono però fiducioso: credo che i Paesi alla fine abbiano sempre una forma di sussulto, di resipiscenza.

Scrivi che l’ideologia ecologista alimenta diseguaglianze sociali: cosa sono gli anywhere e i somewhere?
L’anywhere è il prototipo dell’ecologista: il citizen chic, colui che vive nei grandi centri urbani, appartenente a classi agiate, ai colletti bianchi. Ed è un migrante senza valigia, uno sradicato, senza identità. Il somewhere, al contrario, è una persona radicata nella propria identità, che subisce lo sradicamento multiculturale con l’abbattimento dei confini.

Scrivi anche che l’ecologismo, che pure si presenta così benevolo, ha le mani sporche di sangue. Ti riferisci al neo-malthusianesimo?
Sì. Suggerisco a tal proposito la lettura del libro Fatal Misconception, mai tradotto in italiano. L’autore, Matthew Connelly, racconta, per esempio, che la politica del figlio unico, in Cina, che ha causato decine di milioni di aborti forzati, nacque sulla scia del Club di Roma, che diffuse la teoria secondo cui fosse necessario porre limiti allo sviluppo demografico. Lo stesso in India, con le politiche di sterilizzazione di massa negli anni 70 sponsorizzate da influenti fondazioni occidentali.

Oggi il neo-malthusianesimo come si esprime?
Si esprime con la bocca di quei giovani occidentali che ritengono immorale mettere al mondo figli per non pesare sull’ambiente. È una forma di neo-malthusianesimo grottesca, che però gode del sostegno di personaggi influenti: dai reali inglesi a intere élite nei giornali passando per gli ambienti finanziari.

La pandemia ha offerto nuovi spunti ideologici agli ecologisti? Dobbiamo aspettarci lockdown anche per il clima?
Sulla pandemia la penso come lo scrittore francese Michel Houellebecq: «Il mondo sarà uguale a prima. Solo un po’ peggiore». Tuttavia c’è da avere massima attenzione, poiché abbiamo assistito a un elogio del lockdown da parte di ambienti ecologisti, che ne incensavano gli effetti positivi sull’ambiente.

In sintesi, cos’è l’ecologismo radicale?
È una sorta di avatar del marxismo, in cui si processano la storia e il progresso occidentali per promuovere una tabula rasa. Insieme all’antirazzismo e al femminismo è una grande macchina per produrre slogan, hashtag sui social, imprecazioni. È un catechismo verde in cui la parola d’ordine è «péntiti». È un’ideologia perfetta perché è post-ideologica, mette d’accordo tutti, è trasversale, è diventata mainstream. È terribile ci sia un tentativo febbrile di sigillare l’ortodossia, di stanare i dissidenti, soprattutto in ambito scientifico: chiunque pone obiezioni, viene delegittimato. Siamo prigionieri di una litania di catastrofi in chiave anti-occidentale.

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