È ateo, è liberal. Ma è anche pro life. Kevin Yuill è uno di quegli intellettuali che conosce la storia. E sa bene che il sostegno all’eutanasia e al suicidio assistito oggi tanto sbandierato in ambienti di sinistra, progressisti e “umanitari”, ottant’anni fa era appannaggio dei nazionalsocialisti. Oggi Yuill, professore associato di Storia americana nell’Università di Sunderland, è segno di contraddizione per il mondo accademico anglosassone e mondiale.
Recentemente intervistato da Pro Vita & Famiglia, lo studioso britannico non ha esitato a definire l’eutanasia un «omicidio». È «ridicolo», a suo avviso, definire queste «iniezioni letali» delle «morti buone». A riguardo Yuill cita quanto avvenuto qualche tempo fa in Olanda, dove un paziente affetto da demenza è stato «immobilizzato con la forza mentre i suoi familiari gli somministravano l’iniezione letale, in quanto la droga che avevano messo nel suo caffè non era riuscita a privarlo dei sensi».
Altro esempio tragico: «In Oregon il tempo dal momento della somministrazione del “farmaco” letale fino alla morte varia da sei minuti a otto ore, con una durata media di cinquanta minuti. Si tratta di un processo molto più lento delle esecuzioni capitali».
«Non uccidere»: principio aconfessionale
Yuill è un sostenitore delle cure palliative: chi è accompagnato da queste procedure, sottolinea, va incontro – lui sì – a una «morte tranquilla». A sostegno di questa posizione, l’accademico menziona un sondaggio compiuto tra manager degli hospice che ha evidenziato «ampio consenso» intorno a un concetto: una «buona morte» è da associarsi alla «capacità di controllare i sintomi del paziente e di aiutarlo a prepararsi e ad accettare la morte». Al contrario una «cattiva morte» è «associata all’incapacità di affrontare le emozioni negative del paziente, con conseguente mancanza di accettazione della morte e angoscia per i membri della famiglia». Una ragione in più per promuovere questo tipo di terapie.
Di seguito Yuill ribadisce: «Non uccidere» è un principio importante «anche per coloro che non appartengono alla tradizione cristiana». Non c’è, oltretutto, un «reale bisogno di eutanasia», poiché «la prospettiva di una morte tranquilla migliora con il progresso tecnologico». Inoltre, l’eutanasia legale «costituisce un passo grave che ha profonde implicazioni morali e sociali».
Legalizzare l’eutanasia, quindi, significa, come avviene in Canada, «minare l’eguaglianza morale» tra i cittadini, «ovvero tra coloro la cui vita è considerata, da loro stessi e dallo Stato, come scomoda e a cui viene offerta la morte, e coloro il cui desiderio di morire viene confrontato con le misure di prevenzione del suicidio». Quanto invece ai Paesi Bassi, ricorda lo studioso, l’eutanasia è prevista per chi ha più 74 anni e persino per i bambini e per coloro che soffrono di demenza, mentre «almeno otto persone affette soltanto di autismo» sono state soppresse con questa procedura. «È questo il futuro che volete per l’Italia?», conclude Yuill.
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