Consulta su «suicidio assistito». Airoma: «Scelta tecnica, non politica»

Il vicepresidente del Centro Studi Livatino sulla bocciatura del referendum da parte della Consulta

Domenico Airoma

Domenico Airoma

Una decisione politica. Così alcuni proponenti del referendum sull’eutanasia hanno definito la bocciatura del quesito da parte della Corte costituzionale. Il concetto è stato evocato da Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione «Luca Coscioni», e ribadito dalla leader radicale Emma Bonino. Per capire, «iFamNews» chiede lumi a Domenico Airoma, procuratore della repubblica di Avellino e vicepresidente del Centro Studi Rosario Livatino.

Dott. Airoma, la decisione della Consulta è frutto di un ragionamento squisitamente giuridico o espressione di una tendenza politica?
Se la Corte costituzionale avesse avuto la possibilità di percorrere una strada favorevole ai proponenti, credo l’avrebbe percorsa. Perché il suo presidente Giuliano Amato, manifestando a mio avviso una sudditanza culturale nei confronti dei proponenti, in conferenza stampa ha quasi spiegato loro come riproporre in maniera corretta i quesiti.

Ciò significa che i quesiti referendari erano scritti in modo tecnicamente inaccettabile?
Esatto. Guardi: se fosse stato approvato il referendum che elimina dal Codice penale l’articolo 579, quello che punisce l’«omicidio del consenziente», si sarebbero sviluppate conseguenze paradossali. Perché sarebbe rimasto in piedi, invece, l’articolo 580 che punisce l’istigazione o l’aiuto al suicidio. Come poteva la Corte accettare la possibile eliminazione della punibilità di una condotta e lasciarne intatta una di minore disvalore? Esiste un livello minimo di tollerabilità giuridica che non può essere superato.

Anche il quesito sulle sostanze stupefacenti superava questo livello minimo di tollerabilità?
Pure qui c’erano ostacoli tecnici insuperabili. I proponenti intendevano eliminare la punibilità della coltivazione di qualsiasi sostanza dall’articolo. 73 del Testo unico sugli stupefacenti. Sarebbero, tuttavia, rimaste in piedi altre norme che puniscono le medesime condotte. Anche in questo caso, quindi, si sarebbe creato un paradosso che sarebbe sfociato nella confusione di chi è chiamato a interpretare e applicare la norma.

Prima ha parlato di «sudditanza» del presidente Amato nei confronti dei proponenti. Una considerazione forte…
Si è assistito a una situazione in cui la Corte ha orientato l’iniziativa referendaria, che dovrebbe invece essere lasciata al dibattito popolare. È come se un arbitro indicasse a un calciatore come deve tirare un rigore per fare gol. Ne verrebbe meno l’imparzialità. In questo caso lo trovo singolare dal punto di vista della tenuta del sistema istituzionale. Per questo ritengo che sia il frutto di una sudditanza culturale. Mi chiedo: ma i «Comitati per il No» sono forse considerati soggetti socialmente riprovevoli? A questo punto non avrebbero diritto anche loro a un’interlocuzione istituzionale?

Questa settimana è arrivato alla Camera il «ddl Bazoli«. Secondo lei la bocciatura del quesito sul «suicidio assistito» può influire sul dibattito parlamentare?
Si tratta di due testi tecnicamente diversi. Però nel momento in cui la Consulta, nel bocciare il quesito referendario, ribadisce il principio dell’indisponibilità della vita, soprattutto quando si tratta di vite fragili, allora la questione interessa anche il ddl. Sono curioso di leggere le motivazioni della Corte costituzionale: se verrà ribadito questo passaggio, allora credo che avrebbe ricadute anche sul «ddl Bazoli». Perché quando parliamo di un soggetto che chiede di morire, parliamo di un soggetto debole e fragile. Il quale non va accompagnato a morire, bensì accompagnato nel morire. Sono due cose ben diverse. Chi in parlamento si oppone a questa legge, ora ha buoni motivi costituzionali per intraprendere la battaglia.

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