Last updated on Luglio 29th, 2021 at 02:19 am
C’è un grande pericolo che giustamente viene paventato a fronte delle questioni sollevate dal rapporto I costi di applicazione della legge 194/78 in Italia, e non è né quello del rischio di sottovalutare l’importanza del costo umano dell’aborto, né quello di scambiare il mercato per ciò che non è, né quello di favorire l’aborto chimico rispetto a quello chirurgico.
È il pericolo espresso lucidamente nella Relazione del ministro della salute sulla attuazione della legge contenente norme per la tutela sociale della maternità e per l’interruzione volontaria di gravidanza (Legge 194/78) del 2016, contenente i dati relativi agli anni 2014 e 2015. «Il 9 agosto 2012», si dice nella “Relazione”, «la ONG International Planned Parenthood Federation – European Network(IPPF EN) ha depositato un reclamo collettivo (87/2012) contro l’Italia, presso il Comitato Europeo dei Diritti Sociali, concernente la violazione di alcuni articoli della Carta Sociale Europea, riguardanti l’applicazione della Legge n. 194/78 in relazione al diritto all’obiezione di coscienza degli operatori sanitari, e all’accesso al servizio IVG da parte delle donne italiane». Sostanzialmente un invito ad abbandonare l’aborto come servizio garantito dallo Stato italiano, dunque ad aprirlo a soggetti privati, nella fattispecie e anzitutto alla famosa e famigerata Planned Parenthood.
Il ricorso citato nella “Relazione” fu del resto seguito da un altro analogo, nel gennaio 2013, effettuato dalla CGIL, patrocinante peraltro lo stesso avvocato, Marilisa D’Amico. Lo scopo di quei ricorsi era dimostrare che l’elevato numero degli obiettori di coscienza impediva la piena applicazione della Legge 194/78, un refrain mai abbandonato e oggi pericolosamente di ritorno.
Essendo in Italia l’aborto consentito solo all’interno di strutture del Servizio sanitario nazionale, o comunque convenzionate, e quindi non ai privati, lo scoglio sono gli obiettori. Abbandonare l’aborto performato dal SSN e consentire l’ingresso, sempre maggiore, ai privati, arginerebbe lo scoglio. Un pericolo grave. Da esorcizzare. E bene fa chi oggi punta l’attenzione su questo argomento.
Ho però l’impressione che non basti per preferire l’aborto dello Stato all’aborto dei privati. Per ragioni di principio e per ragioni pratiche. Accettare che uno Stato, la cui funzione è quella di cooperare al bene comune da arbitro ed eccezionalmente una funzione sussidiaria, non solo ammetta la soppressione legale dei propri cittadini più deboli e indifesi accollandone i costi a tutti (non-abortisti e anti-abortisti compresi), bensì ne detenga persino il monopolio con tanto di marca da bollo stile “sali e tabacchi” è un vulnus filosofico insanabile.
Si potrebbe obiettare dicendo di non accettare affatto quel fatto in linea di principio, ma di farne soltanto una questione di riduzione del danno. Rispetto la serietà e l’onestà intellettuale che anima chi con sincerità di cuore solleva questo punto, ma non riesco a trattenermi dal dire che mi ricorda tanto la “stanza del buco”: un uso controllato dell’aborto. A spese di tutti i contribuenti.
Forse la soluzione vera (sottolineo il forse perché sono alla ricerca di possibilità reali e non ho la verità in tasca, sperando, con questo e altri scritti a tema, di suscitare un vero dibattito costruttivo fra i “buoni” alla ricerca del meglio autentico) è sul serio il mercato. Quello vero, però. Quello dove ci si confronta ad armi pari.
Perché il “mercato” additato in alcuni Paesi quanto all’aborto è solo un’illusione ottica: un mercato adulterato e viziato (fattispecie del crony capitalism), insomma un mercato falsato, un mercato falso, un non-mercato.
Ad avvelenarlo, storpiandolo, sono le storture consociative di natura mediatica, politica e quant’altro; sono gli arbitri che scendono in campo a giocare con una delle due squadre; sono i soldi dei contribuenti garantiti alle varie Planned Parenthood, persino per operare all’estero. Che privato è questo?
E inoltre, per esempio negli Stati Uniti d’America, Amministrazioni politiche di colore e ideali diversi, e maggioranze al Congresso federale altrettanto diverse, determinano immediatamente cambi anche repentini di orientamento e decisioni pratiche. Se questo possa essere considerato un aspetto del “mercato” è argomento su cui non ho ancora trovato il tempo per riflettere: certamente comporta che, nei casi virtuosi, il costo umano dell’aborto e il costo economico dell’aborto si riducano subito.
Poi può accadere presto anche il rovescio di fronte, ma è la libertà a essere fatta così. Per paura dei rischi che la libertà comporta, l’abortiremmo? Se il mercato (e quell’aspetto peculiare della situazione statunitense che appunto ancora non so se sia mercato) non fosse perturbato da variabili esterne, ce la si giocherebbe insomma ad armi pari, e chi ha detto che per definizione si perderebbe? Togliamo alle varie Planned Parenthood la situazione di privilegio economico, politico, mediatico e culturale da cui operano e vediamo l’effetto che fa. Scardinare il favore mediatico e culturale può essere opera non immediata, ma legiferare per la trasparenza economica di questi soggetti, soprattutto impedendo a essi di percepire denari statali, potrebbe riequilibrare le sorti.
Avere invece a che fare con le elefantiasi del Moloch statale comporta per certo dilazioni di tempi e di costi e di vittime.
La possibilità dell’ingresso della Planned Parenthood sulla scena italiana giustamente spaventa. Ma una Planned Parenthood appoggiata allo Stato o uno Stato che si servisse surrettiziamente della Planned Parenthood non sarebbe persino peggio? Intendo dire che non mi pare essere lo Stato monopolista dell’aborto a spese dei contribuenti (mentre si ripete, giustamente, che la Legge 194 non è pienamente applicata, ovvero viene sempre applicata soltanto per acuirne gli effetti abortivi) lo scudo più efficace dalle Planned Parenthood. Né la garanzia più granitica dell’obiezione di coscienza, che del resto si sta cercando a gran forza di eliminare completamente.
Ma, ripeto, parliamone.
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