Last updated on Febbraio 15th, 2022 at 11:53 am
Le cure palliative sono segno di contraddizione e smascherano le ipocrisie sui miti del progresso. A darne conferma è il rapporto Bringing death back into life, pubbliato dal periodico specialistico britannico The Lancet.
Il dossier, realizzato da una commissione di 27 esperti di tutto il mondo, selezionati tra medici, psicologi, filosofi, sociologi, economisti e teologi, arriva fondamentalmente a tre conclusioni: la vita media si è allungata, sì, ma, contestualmente, è in declino la qualità della vita; soprattutto durante la terza età, vi è un eccesso di medicalizzazione che sfavorisce le cure palliative; le stesse cure palliative, che pure metterebbero tutti d’accordo, sono penalizzate dai loro eccessivi costi.
Milioni di persone in tutto il mondo sono destinate a «soffrire inutilmente alla fine della loro vita», mentre le comunità e le famiglie dovrebbero cooperare con i servizi sanitari e sociali per «prendersi cura delle persone che stanno morendo».
Senza la morte, nascere non ha senso
La pandemia ha portato più che mai allo scoperto la contraddizione di una «morte medicalizzata» per pazienti, per lo più anziani, che si ritrovano a «morire da solei», assistiti unicamente dal personale sanitario e «impossibilitati a comunicare con le proprie famiglie se non digitalmente». Gli esperti di The Lancet sollecitano un ripensamento dell’approccio ai morenti e alle loro cure, auspicando «cambiamenti necessari nella società per riequilibrare il nostro rapporto con la morte».
Altre criticità che emergono nel rapporto: il dilagare dei «trattamenti futili o potenzialmente inappropriati», quindi dell’accanimento terapeutico, e l’evanescenza delle famiglie nella fase del fine vita, in quanto «la morte e il morire sono diventati degli sconosciuti» e, in sostanza, sono andate perdute le «tradizioni» e le «conoscenze» popolari intorno all’argomento del morire, che, fino a pochi decenni orsono era patrimonio di tutte le fasce d’età.
Il trattamento mediatico riservato alla pandemia di CoViD-19, però, ha provocato un cortocircuito nella psicologia collettiva. La sovraesposizione della morte, come fenomeno di massa, ha «alimentato ulteriormente la paura della morte stessa» nei paesi a più alto reddito, «rafforzando l’idea dei servizi sanitari come custodi della morte».
Il team di The Lancet è quindi pervenuto a una prima conclusione: «Riscoprire il valore della morte può incentivare le cure del fine vita e migliorare la vita in generale». Il divario tra il dire e il fare, in questo ambito, è abissale: nei paesi ad alto reddito, tra l’8 e l’11,2% della spesa sanitaria annuale viene destinata a meno dell’1% di chi muore in quell’anno.
È intorno a questo nodo, che si pone il punto di svolta: meno «trattamenti inadeguati» e più «cure palliative» porterebbero a un «miglioramento della qualità della vita» e «a un costo minore» ma il loro successo nel “mainstream sanitario” è stato finora molto limitato.
Gli esperti della commissione di The Lancet incoraggiano un approccio alla morte in base a un processo «relazionale e spirituale» e non semplicemente «fisiologico», con un maggiore coinvolgimento delle famiglie e delle comunità in reti di assistenza per i morenti. La morte andrebbe riconosciuta come un valore, perché «senza la morte, ogni nascita sarebbe una tragedia», concludono.
Smetterla di pensare solo ai “costi”
Un documento epocale, quello di The Lancet, che si avvale, oltretutto, del contributo di scienziati e studiosi dagli orientamenti etici, religiosi e filosofici più disparati. Un rapporto la cui lettura andrebbe consigliata ai parlamentari italiani che si apprestano a discutere il disegno di legge sul cosiddetto «suicidio assistito».
Più volte, anche su «iFamNews», si è sottolineato l’importanza delle cure palliative come reale alternativa alla cultura eutanasica e al concetto del malato visto soltanto come un “costo” per i servizi sanitari. Non basta quindi semplicemente finanziare le cure palliative o la terapia del dolore: è necessario generare una cultura che sappia apprezzare questa possibilità. Una cultura della vita anche nel passaggio cruciale della morte è l’unica possibilità per mandare gambe all’aria una cultura della morte ormai incombente in ogni risvolto della nostra vita.