Last updated on Agosto 24th, 2021 at 02:28 pm
In un articolo intitolato Learning to Live With Low Fertility, pubblicato su The New York Times il 17 maggio, l’economista statunitense Premio Nobel Paul Krugman legge positivamente i dati del calo demografico negli Stati Uniti d’America, e non solo, presentandoli, non come una minaccia, bensì come un’opportunità per inaugurare una stagione di massicci investimenti pubblici, grazie ai bassi tassi di interesse che sono conseguenza del calo demografico stesso.
Il filo logico è questo: meno nati ieri e oggi = meno giovani in età lavorativa oggi e domani, quindi meno domanda per investimenti e di conseguenza tassi bassi, insomma spazio per aumentare gli investimenti pubblici, a debito, grazie ai tassi bassi. Elidendo i passaggi intermedi, l’equazione diviene: meno nati = più investimenti pubblici. Neppure l’economista britannico John Maynard Keynes (1883-1946) si era spinto a tanto.
Esordendo dall’analisi dei dati che segnalano un’inflazione in rialzo negli Stati Uniti, Krugman fa propria l’interpretazione che la Federal Reserve (la banca centrale degli Stati Uniti) e altre importanti Banche centrali del mondo danno dell’inflazione attuale: un fenomeno solo temporaneo, di cui non occorre pertanto preoccuparsi.
Krugman sottolinea come vi siano «segnali scarsi di rialzo dell’inflazione strutturale» e che dunque la situazione contingente è solo il «riflesso di quelle che probabilmente sono le risalite una tantum dei prezzi delle auto usate e delle camere di albergo». Secondo l’economista statunitense, è cioè «probabile che rimarremo in un contesto di tassi bassi conseguenza di una debole domanda di investimenti. E la ragione principale sta nel crollo della fertilità, che implica una crescita lenta o addirittura negativa nel numero dei cittadini statunitensi che si trovino nei primi anni di vita lavorativa».
Riprendendo i dati del CensusRreport, che mostrano tassi di crescita della popolazione statunitense ai minimi dagli anni 1930, Krugman afferma che ciò «conferma semplicemente quello che tutti coloro che studiano l’argomento già sapevano. E gli Stati Uniti arrivano al party relativamente tardi. La popolazione in età lavorativa in Giappone è in declino dalla metà degli anni 1990. L’area euro è in trend ribassista dal 2009. E persino la Cina inizia ad assomigliare al Giappone, come conseguenza della politica del figlio unico».
Benvenuto il calo demografico
Alla luce di queste tendenze demografiche, Krugman sentenzia: «Una popolazione stagnante o in declino costituisce un grosso problema economico? Non necessariamente. Infatti, in un mondo di risorse limitate e di gravi problemi ambientali, la riduzione della pressione demografica è la benvenuta. In un’economia con popolazione stazionaria vanno però pensate policy diverse rispetto ai giorni in cui i baby-boomer entravano a frotte nella forza lavoro potenziale».
Krugman ammette comunque «l’esistenza di un problema reale: una popolazione che invecchia implica meno lavoratori attivi per pensionato, il che solleva alcuni problemi fiscali». Ma, aggiunge, «questo aspetto è spesso esagerato».
Il problema principale, per l’economista, è piuttosto legato al fatto che «una bassa crescita della popolazione può causare una persistente debolezza nella spesa». Il rischio è quello di cadere in una «stagnazione secolare», per adoperare l’espressione utilizzata nel 1938 dall’economista statunitense di scuola keynesiana, Alvin Hansen (1887-1975), ripreso recentemente da Lawrence H. Summers, ex ministro statunitense del Tesoro. Krugman riconosce cioè che «la stagnazione secolare può essere un problema, perché se i tassi di interesse rimangono molto bassi nei tempi buoni non ci sarà molto spazio perché la Federal Reserve possa abbassarli durante le recessioni». Ma, commenta, «un mondo con bassi tassi di interesse può offrire anche grandi opportunità di policy, se si è disposti a pensare in modo chiaro».
E non solo: rassegniamoci, che è meglio
Riconoscendo che «il risparmio delle famiglie non sa dove allocarsi», e che «le imprese non vedono opportunità di investimento interessanti», Krugman propone: «Beh, perché non mettiamo il denaro a lavorare per il bene pubblico? Perché non indebitarsi a tassi bassi e investire per ricostruire le infrastrutture decadenti o nella salute e nell’istruzione, e altro ancora? Per la società sarebbe un bene, un bene per il futuro, e darebbe anche protezione contro recessioni future». Non bisogna insomma preoccuparsi dei livelli elevati del debito, perché se anche il debito federale come percentuale del Prodotto Interno Lordo (PIL) è raddoppiato rispetto al 1990, «gli interessi da pagare sul debito si sono dimezzati […], principalmente come effetto della stagnazione demografica».
Quanto al piano di investimenti lanciato dal presidente Joe Biden, per Krugman è un «passo gratificante nella direzione giusta», ma tali politiche non sono poi «neppure così ambiziose come spesso vengono rappresentate» e peccano in realtà per essere «troppo fiscalmente responsabili […], l’amministrazione è eccessivamente preoccupata dal dover ripagare i propri piani». Quindi, chiude Krugman, «il fatto è che siamo destinati, ci piaccia o meno, a vivere per molto tempo in un contesto di bassissima crescita della popolazione. E dobbiamo iniziare a pensare alla politica economica con questo dato in mente».
In realtà è vero il contrario
Si impone qualche considerazione. Krugman fa dipendere i tassi bassi principalmente dal calo demografico, senza dire però che, all’origine dei tassi schiacciati verso lo zero (anche al di sotto nell’area euro e in Giappone), ci sono le politiche monetarie ultraespansive praticate dalla Federal Reserve e delle altre Banche centrali mondiali, che, dalla grande crisi finanziaria del 2007-2009 in poi, hanno inondato di liquidità i circuiti finanziari.
Il calo demografico ha semmai contribuito a contenere le dinamiche inflazionistiche, nonostante l’abbondante liquidità immessa. Questa, infatti, ha finora generato solo un’inflazione degli asset: sono salite le quotazioni azionarie, i corsi obbligazionari (spingendo specularmente i rendimenti in basso), le quotazioni degli immobili, dei preziosi e ultimamente delle materie prime. Tali politiche hanno scoraggiato il risparmio e incentivato l’indebitamento, e ora rischiano seriamente di trasferirsi anche ai prezzi alla produzione e al consumo, come già sta accadendo negli Stati Uniti, dove l’inflazione si è spinta oltre il 5%.
Che si tratti di effetti temporanei, come vorrebbe la narrativa della Federal Reserve condivisa da Krugman, è lecito dubitare visto che la stessa Federal Reserve e le altre Banche centrali stanno perseguendo una politica dichiaratamente inflazionistica proprio per sgonfiare il valore reale dei debiti, fuori controllo già prima del CoViD-19 e ora saliti a livelli impressionanti (da stime del Fondo Monetario Internazionale, il debito globale mondiale a fine 2020 è salito alla cifra monstre di circa 277mila miliardi di dollari statunitensi, pari al 365% del PIL).
Le Banche centrali, con le proprie iniezioni di liquidità, hanno incentivato l’indebitamento per poi stabilizzare l’eccesso di debito con ulteriore liquidità e manipolando i tassi al ribasso: un circolo vizioso, una vera e propria “trappola” del debito da cui si cerca di uscire facendo salire i prezzi del carrello della spesa. Ecco perché è improbabile che l’inflazione sia un fenomeno passeggero: rischia di divenire invece una nuova tassa occulta sui risparmi e sui redditi fissi (prevalentemente salari, stipendi e pensioni). Il costo della finanziarizzazione dell’economia degli ultimi lustri, a beneficio di pochi, rischia di scaricarsi ora sulla classe media, in una sorta di «socialismo finanziario» delle Banche centrali.
“Socialismo liberale”
Krugman afferma inoltre che i bassi tassi di interesse saranno un’ottima occasione per gli investimenti pubblici. Detto in altre parole, le “cedole” sui titoli obbligazionari che i debitori, come gli Stati, non dovranno riconoscere ai risparmiatori (dati i rendimenti obbligazionari “repressi” dalle politiche monetarie) saranno le risorse che potranno essere investite per fare investimenti, pubblici e non solo.
Qui la “gamba” monetaria si salda alla “gamba” fiscale e il cerchio si chiude. In un contesto di “repressione finanziaria” di lungo periodo, i risparmiatori vedranno infatti penalizzato il proprio risparmio, sia in termini nominali sia in termini reali, a vantaggio dei debitori; di conseguenza i debitori, e Krugman ha in mente il governo statunitense, potranno continuare a investire a debito per molti anni a venire, alla faccia dei creditori/risparmiatori. In tal modo la ricchezza è destinata a concentrarsi sempre di più, a svantaggio della classe media e dei piccoli e medi risparmiatori-imprenditori, in una sorta di “socialismo liberale”.
Che il calo demografico non sia poi un problema per le prospettive dell’economia non è un tema condiviso da tutti gli economisti. Per esempio è interessante l’articolo, assai poco politically correct, firmato su Bloomberg in marzo da Tyler Cowen, professore di Economia alla George Mason University di Fairfax, in Virginia, e intitolato What Does the World Need? More Humans, vale a dire «Di che cosa ha bisogno il mondo? Di più esseri umani». E se il messaggio non fosse ancora chiaro, nel catenaccio si precisa che «lo spopolamento globale è la minaccia esistenziale incombente di cui nessuno parla». Cowen, da economista e non da moralista, scrive che «esiste una certa evidenza […] del fatto che la contrazione della popolazione sia negativa per l’economia globale», per poi aggiungere, da persona di buon senso, che «per me, comunque, la tragedia più grande sarebbe il fallimento nell’utilizzo pieno della capacità che il pianeta ha di sostenere la vita umana» e che «dovrebbero esserci politiche per rendere le famiglie numerose un’opzione più attraente, sia dal lato economico sia in generale». Insomma una visione assolutamente speculare a quella di Krugman, partendo dalla lettura degli stessi dati, ma seguendo una prospettiva che considera le persone e le famiglie come risorse e non solo come costi o minacce per la salute della Terra.
Mantenere la popolazione sotto controllo e aumentare gli investimenti pubblici è l’agenda distopica portata avanti da molti, troppi potenti del mondo.
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