CPAC sta per Conservative Political Action Conference ed è la convention dei conservatori degli Stati Uniti d’America che dal 1973 si svolge in febbraio, ideata, voluta e gestita dall’American Conservative Union, la quale a propria volta, fondata nel 1964, è la più longeva lobby politica della Destra americana.
Il CPAC è un’esperienza indimenticabile, il conservatorismo politico in presa diretta. Se e quando il personale politico degli Stati Uniti onora princìpi non negoziabili e su dossier più negoziabili dispiega retta ragione lo si deve anche al crogiolo di ambienti come il CPAC. Che non è certo l’unico, ma questo è solo un gran complimento alla capacità di incidere sul serio che negli Stati Uniti i “buoni” dimostrano da oltre mezzo secolo. È vivendo le giornate del CPAC che si percepisce fisicamente cosa significhi l’espressione “movimento conservatore”.
Domenica 28 febbraio la folla del CPAC ha ascoltato l’ex presidente Donald J. Trump pronunciare il primo discorso pubblico da quando ha lasciato la Casa Bianca.
È stato uno show, di quelli a cui per anni Trump ha abituato il mondo. Con il suo stile, la sua retorica, i suoi tic. Trump si è intestato molti meriti e ha sparato ad alzo zero sul suo successore, Joe Biden, lanciando sassate in loggione anche agli esponenti Repubblicani che hanno votato per il suo (secondo) impeachment. Tutto nella norma, insomma. Tutto come il pubblico immaginava, prevedeva e voleva. Tutto insomma già negli archivi.
Tutto tranne un elemento, il più importante.
Trump ha detto di non avere la minima intenzione di fondare un partito nuovo, un “terzo partito”. Nei mesi scorsi voci così sono corse e si sono rincorse. Qualcuno aveva già pensato fosse una scelta inevitabile, qualcuno ha subito creduto fosse la scelta giusta. Invece non se ne farà nulla.
Perché? Per molte ragioni, ma quella più notevole l’ha detta Trump dal palco. Perché non serve: esiste il Partito Repubblicano ed è quello il partito dei “buoni”.
Più volte Trump ha parlato di movimento conservatore e di Partito Repubblicano: che certo sono oramai una endiadi, ma che di diritto restano – sanamente – realtà distinte. Ma il contagio buono del primo ha reso negli anni, nei decenni, migliore il secondo.
Ebbene, quell’effetto non è finito. Oggi il Partito Repubblicano è di fatto un buon partito conservatore. Mele marce ce n’è qualcuna, ma si vedono a miglia di distanza. E individuarle aiuta a sbarazzarsene. Ogni tanto qualche mela marcia in più si intrufola, come per esempio in occasione dell’approvazione dell’«Equality Act» alla Camera, ma quando accade la notizia del giorno è proprio quella, e pure questo serve a sbarazzarsene.
Corollario importante, Trump ha dato il ben servito anche all’espressione «trumpismo». Non è certo un filosofo della politica, Trump, ma in qualche battuta ha fatto quel lavoro che sarà anche sporco, ma che qualcuno deve pur fare: ha eliminato autorevolmente la cacofonia di quella personalizzazione deleteria che serve solo a gettare fumo negli occhi. Il tema qui è infatti ancora e sempre il conservatorismo il cui veicolo politico è il Partito Repubblicano. Smetterà di esserlo quando il Partito Repubblicano non sarà più quello che oggi rivendica di essere: il partito dove Dio, patria e famiglia hanno diritto di cittadinanza. Non male per un uomo d’affari sceso cinque anni fa in politica per sopprimere tanto il movimento conservatore quanto il Partito Repubblicano.
Non è finita, insomma, e l’8 novembre 2022 gli Stati Uniti votano per rinnovare il Congresso federale.
Image source: Donald Trump, photo by Gage Skidmore from Flickr, licensed by CC BY SA 2.0
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