Di «terapie riparative», o «di conversione», si è detto più e più volte. Se rispettose e corrette, come debbono essere, si tratta di consulenze di tipo psicologico o di supporto spirituale e religioso, a disposizione delle persone omosessuali che volessero confrontarsi con questo aspetto di sé ed eventualmente preferissero essere aiutate a volgersi verso l’eterosessualità.
La narrazione mainstream preferisce però qualificarle come «omofobe», vietando a priori la possibilità di avvalersene, anche per chi invece le richiedesse. Insomma, un cortocircuito della ragione, che inneggia alla libertà assoluta solo per chi la pensi come il pensiero dominante vuole.
Così, in tempi recenti, dopo la Francia, che ha seguito l’esempio di Brasile, Ecuador, Malta, Albania e Germania, mentre Canada, Finlandia, Messico e Spagna stanno elaborando programmi nella medesima direzione, è stata la volta dei Paesi Bassi, della Nuova Zelanda, di Israele e nel Regno Unito del Galles, tutti Paesi decisi a vietare tali pratiche.
Tocca pure alla Svezia, nonostante le tante voci contrarie facciano scricchiolare l’edificio posticcio delle pretese LGBT+, ma dove comunque i Liberali da tempo chiedono che le «terapie riparative» siano messe al bando, ottenendo prima il sostegno del Partito Socialdemocratico e ora anche quello del Partito dei moderati e del Partito di Centro.
A marzo, l’Agenzia per la Gioventù e la Società civile (MUCF) ha richiesto al governo di predisporre un’inchiesta sul divieto dei tentativi «di conversione» per quanto riguarda sia i giovani, addirittura i bambini, sia gli adulti. La questione è attualmente in fase di elaborazione da parte del ministero della Giustizia svedese.
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