Last updated on Febbraio 15th, 2021 at 04:46 am
L’argomento si presta così facilmente alla strumentalizzazione da imporre una premessa forte e chiara. Certo, la si bollerà come excusatio non petita e dunque accusatio manifesta, ma l’onere della prova spetta a chi è in malafede. Le cosiddette «terapie riparative» per affrontare il disagio causato dalla disforia di genere sono un insieme di cose diversissime, così tanto diverse che alcune sono l’esatto contrario delle altre, e così profondamente differenti, che alcune sono solo abusi intollerabili da denunciare senza esitazione.
Luci e ombre
Già l’espressione «terapia» applicato a questi casi puzza di disinfettante e d’inganno. Un conto, infatti, è l’amicizia psicologica e spirituale, che, agendo sulla stima di sé, avvicini una persona affetta da forte disagio psicologico e spirituale, se questa persona lo chiede, e che, nel totale rispetto delle intangibili dignità e libertà umane, si prenda cura di essa, quale che sia, o possa essere, l’esito. Un altro, del tutto opposto, è l’intromissione forzosa e persino forzata, spesso persino non richiesta, nei reconditi della persona, con tanto di medicalizzazione brutale della questione e violenza fisica o psicologica. C’è differenza abissale, infatti, fra l’ascolto e la costrizione. E non è certo un caso che al declino di una cultura dell’ascolto autentico, fatta di famiglia, di amicizie e persino di confessori, corrisponda lo sviluppo di una ideologia della manomissione. Vale per il disagio giovanile, vale per le tossicodipendenze, vale per l’omosessualità.
In questo ambito, infatti, così come si registrano momenti di straordinaria intensità umana di fronte a persone che da sé, grazie ad affetti veri, ritrovano se stesse, si segnalano invece anche esempi di sopraffazione, che gridano letteralmente vendetta al cospetto del Cielo. Si fa presto, insomma, a dire «terapie riparative», ma non tutto è uguale. Ci sono luci, ma ci sono anche molte ombre.
Gli abusi
Le ombre non oscurano però completamente mai le luci. E chi si approfittasse delle ombre per spegnere anche definitivamente le luci, con malizia, commetterebbe un delitto uguale a colui che coarti la coscienza e la libertà di una persona che lamenti disagi.
Ora, il nostro è un mondo fortemente ideologizzato, dove il bene della persona viene sovente sacrificato sull’altare del potere politico, mediatico, culturale. Soprattutto accade che chi detiene potere politico, mediatico, culturale riesce a stabilire le regole del gioco, abusi compresi. E così in un mondo votato a normalizzare anche ciò che normale non è, la questione delle «terapie riparative» diventa la notte in cui tutte le vacche sono nere e s’intentano processi alle intenzioni, si getta il bambino assieme all’acqua sporca e, per vizio ideologico, si nega alle persone che lo richiedono o che lo richiederebbero quel supporto e quella vicinanza che non è mai abuso, commettendo sì un abuso grave.
È quanto successo per esempio in Germania, dove una legge non distingue più fra bene possibile e abuso consumato, trascinando tutto nell’indistinto a detrimento però di chi di supporto e di amicizia ha appunto bisogno. È quello che sta succedendo in Canada, dove leggi analoghe sono in procinto di approvazione. Ed è quello che succedendo in Australia, forse nel modo più clamoroso e odioso possibile.
La protesta
L’Assemblea legislativa dello Stato federale australiano di Victoria ha infatti approvato una proposta di legge dal titolo Change or Suppression (Conversion) Practices Prohibition Bill (2020), che ora attende solo il verdetto del Consiglio legislativo, cioè la “Camera alta” del parlamento dello Stato, e di fronte alla quale la reazione sta crescendo, guidata soprattutto dalle Chiese cristiane e da altre denominazioni religiose, con cattolici e presbiteriani in testa.
Nel denunciare questa legge i gruppi religiosi, e in particolare i cristiani, con appunto cattolici e presbiteriani in testa, sono chiarissimi, anzi tetragoni a condannare contemporaneamente ogni possibilità di abuso e di violenza che possa essere legata ad alcuni tipi particolarmente nefasti ed esecrandi di «terapia riparativa», schierandosi, su questo aspetto specifico, assieme ai legislatori dello Stato di Victoria. Né questi stessi oppositori hanno mai proferito la minima parola di discriminazione delle persone omosessuali.
Nondimeno denunciano la legge approvata come un bavaglio insopportabile alla libertà religiosa e alla libertà di espressione.
La legge in questione prevede fino a dieci anni di carcere per chi venga giudicato praticare abusi ed eccessi. L’obiezione dei critici della legge è semplice. Chi e come stabilisce cosa sia un “abuso” e un “eccesso”? Dipende dal metro di valutazione adottato e del punto di partenza di chi ha il potere assoluto di giudicare e di stabilire pene, ma questo va facilmente soggetto all’ideologizzazione.
Del resto la legge (Sezione 5.3) include, fra le pratiche condannabili, anche «pratiche religiose che includano pratiche basate sulla preghiera, ma che non si limitano a quelle», tali anche se tutto avvenga con il consenso della persona interessata. Come ha bene spiegato il ministro della Giustizia dello Stato federale di Victoria, descrivendo un esempio di pratica proibito, anche con il consenso dell’interessato, che è: “Una persona che si rivolga a un leader religioso in cerca di consigli sull’attrazione che essa prova per altra persona del suo stesso sesso, laddove quel leader religioso dica a detta persona che sbaglia e che egli o ella dovrebbe piuttosto osservare il celibato o il nubilato al fine di cambiare o eliminare l’attrazione per le persone del suo stesso sesso».
La conferma
Certo, il ministro ha spiegato che di per sé non verrà incriminata l’opinione teologica e morale di un leader religioso sull’omosessualità, per esempio un’omelia o un sermone in cui si dica che, per ragioni teologiche e morali, una certa dottrina religiosa consideri sbagliata l’omosessualità, ma ha aggiunto anche che le omelie e i sermoni verranno monitorati per impedire che passino la soglia di ciò che è lecito.
Ebbene, come detto, la “soglia di ciò che è lecito” e di ciò che non lo è una nozione così vaga, anzi appositamente lasciata indefinita, magari pure solo per impossibilità tecnica di farlo, che la discrezionalità di chi ha il potere di decidere torna subito protagonista. Appunto, il potere di chi il potere lo detiene e oggi promuove una legge come questa.
Un sacerdote o un qualsiasi altro ministro di culto potrebbe insomma dire a un proprio fedele che la sua condotta morale è sbagliata, ma se poi aggiungesse che quindi dovrebbe cambiare vita potrà essere sanzionato. Ma è ovvio che se io dicessi a una persona che me lo domandasse che la sua condotta è decisamente sbagliata affermo pure implicitamente, cioè in questo caso naturalmente nonché per logica e per conseguenza diretta, anche se non lo dico esplicitamente, che quella condotta di vita va cambiata. Come si fa, infatti, a fare il contrario?, ovvero rispondere, a chi chiedesse un parere e magari anche un consiglio, che sta sbagliando intrinsecamente per le ragioni più forti (quelle teologiche e morali), ma che deve continuare disinvoltamente a sbagliare?
Mandare tutto a monte
La gravità di una legge così è insomma palese. Dunque una legge così non serve. L’unico effetto che potrà avere è privare le persone che lo chiedono di ascolto e di aiuto, processare le intenzioni, scambiare il bene con il male e zittire chiunque non la pensi come l’ideologia relativista oggi dominante per qualsiasi ragione, compresa quella religiosa. Ovvero compiere un abuso dietro l’altro. I delitti vanno sanzionati sempre. Ma per quello esistono, ovunque, i codici penali. Non servono affatto leggi speciali, men che meno se sono ambigue, mal scritte o persino male intenzionate. La legge dello Stato federale australiano di Victoria sembra essere la peggiore in materia. Potrebbe pericolosamente fornire un precedente mondiale. Ecco perché occorre trovare il sistema legale e democratico per affossarla.