Uscire dal radicalscicchismo si può

La favola vera di Serena Di, giovane scrittrice che getta alle ortiche il passato per mettere su famiglia

Serena Di

Serena Di

Last updated on aprile 22nd, 2021 at 09:40 am

Al mondo sono sempre esistite, al fianco delle religioni trascendenti, le «religioni secolari». L’essere radical chic è una di queste, con il suo clero, i suoi templi, le sue liturgie, i suoi riti penitenziali e anche i suoi apostati. Ne tratta, in una gustosissima opera prima, Serena Di, giovane scrittrice che quel mondo lo conosce bene, avendone per una decina d’anni bazzicato i salotti nelle tre principali metropoli italiane. Ecco allora carrellate di annoiati esponenti dell’alta borghesia romana, napoletana o milanese, che passano da una terrazza all’altra, da un brunch all’altro, su sfondi degni de La grande bellezza. Tanti buffi stereotipi viventi, inconsapevoli però di esserlo.

Confessioni di una radical chic pentita si pone a cavallo tra il romanzo autobiografico e la satira di costume. L’aspetto più rilevante è però quello intimo e personale. «A volte si deve guardare alle proprie azioni in maniera critica, evitando il luogo comune: “Se tornassi indietro, farei tutto come prima…”. Anche no! Di qualcosa potremo pure pentirci…», confida serena ad “iFamNews”. Da qui il titolo del libro che, sull’onda dei ricordi, racconta di un cambiamento di vita a 360 gradi: dalla superficialità alla sincera introspezione, dall’individualismo alla famiglia, dal materialismo alla spiritualità, dall’io a Dio.

«La mia è una testimonianza. Volevo riflettere su una determinata visione del mondo», dice la giovane scrittrice. «Ho usato l’ingrata etichetta di radical chic, ma non è certo mia intenzione scagliarmi contro la gente che frequentavo un tempo. Anche gli atei e i nichilisti, a modo loro, cercano di dare un senso alla propria vita e, per questo, sono da rispettare. Comunque è anche vero che il radicalscicchismo ha i propri bei dogmi, e che uno dei culti della contemporaneità è la sostituzione di Dio con l’io. Nello sbandierare il proprio desiderio di libertà da qualunque religione o valore, i radical chic cercano un proprio assoluto e una propria spiritualità con modi spesso autocelebrativi e autodistruttivi. Quando di desidera la libertà, ci si dovrebbe sempre chiedere a cosa si va incontro. Liberamente io ho scelto di avvicinarmi alla fede cattolica e oggi sono una donna libera. Gli altri sono altrettanto liberi?».

Un tratto distintivo del microcosmo radical chic è la precarietà in ogni foggia: lavorativa, esistenziale, affettiva, valoriale. Sul piano lavorativo, Serena Di questa precarietà l’ha sperimentata su di sé nei periodici culturali dove ha lavorato o svolto stage. È anche in ragione della precarietà che gli ambienti radical chic sono ipercompetitivi, a volte a livelli tali da incidere anche sulla “salute mentale”, racconta Serena. L’ipercompetitività si manifesta in tanti modi: «Tendono a etichettarti, a darti un “identificativo veloce”. È tutto un domandarti che lavoro fai, in che quartiere abiti, che macchina usi, che abiti indossi. In particolare nei settori della moda, del cinema o della comunicazione si gioca molto sulle apparenze e tutti si debbono conformare».

Ovviamente in un mondo in cui il lavoro è tutto e pervade ogni momento del giorno e della notte, «la famiglia viene vista come un ostacolo alla realizzazione personale». È un mondo dove le donne vengono «caricate di aspettative di carriera», ma, poi, di fatto, diventano schiave di datori di lavoro fallocrati e sciupafemmine, sempre propensi a concedere corsie preferenziali all’amante di turno. In particolare, nel settore della comunicazione, «te lo dicono chiarissimo: “Se hai famiglia e figli non ti prendiamo a prescindere”». Se uno non risponde a un messaggio o a una chiamata inoltrati a mezzanotte, «viene automaticamente penalizzato». Oggi che è sposata e mamma di una bambina di quasi due anni, Serena vede tutto in maniera diametralmente opposta. «Le donne che vogliono solo lavorare hanno tutto il diritto di farlo… ma perché quelle che vogliono fare le mamme non vengono aiutate e non possono restare a casa anche uno o due anni a occuparsi del proprio bambino?».

Nonostante tutto, nella sua “vita precedente” Serena Di ha accumulato anche esperienze positive ed è rimasta in contatto con diverse persone. «Devo dire che sono stata fortunata», spiega: «ho avuto colleghi fantastici e quei pochi che sono finiti nel libro non li ho affatto voluti giudicare: sono persone che non si sono comportate male soltanto con me e, anche per questo, nell’ambiente godono di una certa fama…». Nel libro Serena racconta di qualche umiliazione subita da personaggi facenti parte di un certo “cerchio magico”, dove, a dispetto dello stile di vita caotico, vigono codici comportamentali severissimi. Quando, per esempio, si sperimentano pietanze esotiche improbabili e indigeste, tutti devono mostrare di apprezzare e guai a chi grida «Il re è nudo».

«Davvero non me l’aspettavo: ho ricevuto decine e decine tra e-mail e messaggi di complimenti da parte di amici e colleghi che non sentivo da una vita», prosegue la scrittrice. «Alcuni hanno letto il mio libro per curiosità, magari solo perché mi conoscevano. Qualcuno di loro, come me, si sta avvicinando alla fede, altri no, ma hanno comunque gradito».

La fede, appunto. Per Serena il rapporto con il cattolicesimo è stato piuttosto sofferto. Da bambina, incoraggiata dalla nonna, pregava il rosario; poi alle medie una «prof molto ideologizzata» contribuì ad allontanarla dalla Chiesa, inculcandole strani sensi di colpa. Oggi che quell’insegnante è passata a miglior vita, Serena rimpiange di non essersi potuta riconciliare personalmente con lei, ma aggiunge subito «in cuor mio l’ho perdonata».

Tre anni fa Serena Di ha conosciuto un giovane statunitense, in fase di conversione. L’ha conquistata con una disarmante galanteria old style, con tanto di rosa in mano, e un rosario al polso. Oggi, sposati e genitori di una bambina, vivono tra le due sponde dell’Oceano. Adesso a Boston, ma contano di venire presto in Italia (non appena le norme anti-CoViD lo permetteranno). Serena è rimasta letteralmente conquistata dall’esempio del marito. «Ho voluto sposarmi in chiesa non per abitudine, ma solo dopo essermi pienamente riconciliata con Dio: abbiamo detto “sì” con molta coscienza e con molta gioia». Prima di quella religiosa c’è stata però la conversione umana. Mettere su famiglia cambia ogni prospettiva e Serena Di conferma che la realtà è sempre migliore della più luccicante bugia radical chic.

Exit mobile version