Last updated on Giugno 8th, 2021 at 08:57 am
Il 28 aprile di tre anni fa moriva Alfie Evans. Non aveva neppure due anni, e già moriva in ospedale, nel Regno Unito in cui era nato, dopo lunghi e feroci combattimenti che hanno fatto della sua vita e del suo corpicino un campo di battaglia, quindi dopo cinque giorni di agonia seguiti alla rimozione del supporto per la ventilazione, di cui beneficiava a causa di una grave patologia neurovegetativa.
A nulla sono valse le richieste dei genitori di trasferirlo in un altro nosocomio per tentare una terapia quantomeno palliativa, per esempio all’estero, a nulla l’appello del Santo Padre, a nulla le manifestazioni delle associazioni per i diritti umani, a nulla la disponibilità dell’Ospedale Bambin Gesù di Roma di prendersi carico delle cure del piccolo, né che il governo del nostro Paese avesse concesso al bambino la cittadinanza, proprio affinché potesse essere trasferito in Italia.
Alfie Evans (9 maggio 2016-28 aprile 2018), Charlie Gard (4 agosto 2016- 28 luglio 2017), Isaiah Haastrup (18 febbraio 2017-7 marzo 2018).
Tre storie che si assomigliano in modo tragico, tre bambini cui sono state negate le cure sanitarie fondamentali, tre famiglie distrutte, tre lapidi con nome e data. Una Spoon River senza parole, bastano i ricordi.
Ai genitori di Charlie non è stato concesso neppure di portare a casa il bambino, affinché una volta staccata la ventilazione potesse stare fra le braccia della mamma, quando non fosse più stato possibile curarlo in nessun modo.
Queste sono le vittime “celebri”, chissà quante invece quelle sconosciute, malgrado loro stessi e malgrado i genitori, che si sono battuti strenuamente ma purtroppo inutilmente affinché fosse loro garantito un diritto alla vita che, a quanto pare, non è garantito affatto. Tutto quanto in nome del cosiddetto «best interest», come a dire per il loro bene. Così giudica infatti la CEDU, la Corte europea dei diritti dell’uomo.
Perché è evidente che qualcuno consideri alcune vite meno degne di essere vissute rispetto ad altre, guarda caso spesso rispetto alla propria. Peccato che quel qualcuno detenga il potere di decidere e che questo lo renda tragicamente responsabile.
Poiché se è possibile uccidere un bambino ancora nel ventre della mamma, perché non farlo immediatamente dopo? Perché non dopo un anno, o due, se qualcosa “va storto”?
Perché non dopo qualche tempo, una volta passata la tenerezza dei primi momenti e del cucciolo d’uomo, in balia comunque degli adulti, qualora un genitore stremato non se la sentisse più di combattere?
Perché non dopo un grave incidente che abbia reso disabili?
Perché non quando l’età avanzata ha piegato la schiena e la voglia di vivere di una persona, in una depressione pesante come un macigno?
Domande retoriche, certo. Ma non inutili.
Non sono inutili perché Pippa Knight è gravemente malata ma è viva, ha cinque anni, potrebbe vivere a casa con i genitori, certamente con le cure e il sostegno opportuni, ma qualcuno propone di ucciderla, qualcuno pensa che dovrebbe essere la prossima della tragica lista.
Ora voi la guarderete negli occhi e avrete il coraggio di dire che è per il suo bene ammazzarla. Ma ne riparleremo.
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