Last updated on Febbraio 20th, 2021 at 04:38 am
È «qualcosa di bello, la distruzione delle parole. […] Non capisci che lo scopo della neolingua è quello di restringere al massimo la sfera di azione del pensiero? Alla fine, renderemo lo psicoreato letteralmente impossibile, perché non ci saranno parole con cui poterlo esprimere. […] Il pensiero non esisterà più, almeno non come lo intendiamo ora. Ortodossia vuol dire non pensare, non aver bisogno di pensare. Ortodossia e inconsapevolezza sono la stessa cosa». Le parole profetiche di George Orwell (1903-1950) in 1984, del 1949, corrispondono sempre più alla quotidianità.
L’operazione è iniziata decenni fa, con modalità prevedibilmente pacifiche e apparentemente positive: lo spazzino è diventato «operatore ecologico» – come se la dignità della fatica quotidiana venisse amplificata da una descrizione più leziosa – e l’handicappato «diversamente abile». E già qui qualcosa dev’essere andato storto, perché, nonostante l’operazione linguistica, nella realtà dei fatti per un individuo umano la malformazione (anche lieve) – lungi dall’aver guadagnato in dignità e considerazione – è sufficiente a rendere possibile l’aborto del feto anche nel secondo trimestre di gravidanza, almeno in Italia. Altrove pure più in là. Si tratterebbe infatti di «vite non degne di essere vissute» e, nel caso in cui una «diversa abilità» si presentasse in momenti successivi alla nascita, in determinate circostanze ci sarebbero le condizioni per rendere doverosa l’interruzione di quella vita. Ovviamente nel «migliore interesse» – nuovo progresso degli artifici linguistici – dell’individuo.
Neolingua nell’università
L’evoluzione del linguaggio però non si ferma e così alcuni ricercatori dell’Australian National University (ANU) di Canberra hanno pubblicato, l’anno scorso, un manuale gender-inclusive, ovvero una guida per «uplift female and gender minority students»: «elevare le donne e gli studenti di genere femminile o minoritario». Già lasciano perplessi l’uso del concetto di «genere» come costrutto sociale e l’assimilazione della condizione femminile a quella delle «minoranze di genere», come se esistessero «minoranze di genere» oltre ai sessi-gender maschile e femminile, ma colpiscono soprattutto le dritte per l’uso della neolingua parent-inclusive. Con il fine – nobile – di facilitare la condizione di chi, svolgendo il percorso scolastico, stia già accudendo un figlio – o più –, l’università australiana afferma di «celebrare la diversità fra gli studenti».
L’eterosessualità traumatizza
Secondo uno studio del 2019 svolto dalla ricercatrice Lauren Dinour, Speaking Out on Breadfasting Therminology, un «heterosexual and woman-focused lactation language» (un «uso di termini relativi all’allattamento troppo eterosessuale e troppo incentrato sulla donna») potrebbe «misgender, isolate, and harm transmasculine parents and non -heteronormative families» («comportare l’uso del gender sbagliato in riferimento a certe persone, nonché ferire i genitori transmascolini e le famiglie non-eteronormative»). Quindi, dato che non vi è nulla di più eterosessuale che parlare di «allattamento al seno», invece di «breastfeeding» meglio «cheast feeding», «allattamento al petto».
Resta il dubbio che i neolinguisti siano incappati di una sottile contraddizione, ovvero che diano per scontato che solo le donne abbiano il seno. Forse che un «transgender female to male» che abbia mantenuto le proprie ghiandole mammarie si sentirebbe più “accolto” sentendo parlare di «petto» invece che di «seno»? E la cosa non sarebbe discriminatoria anche per un «transgender male to female» che sia invece ricorso alla chirurgia estetica per ottenere un «petto» simile a quello di cui madre natura dota gli individui con corredo cromosomico XX?
Siamo a cavallo, anzi a cavalluccio
Sarebbe inoltre veramente scorretto parlare di «latte materno» laddove esistono espressioni più inclusive: «latte umano» o «latte del genitore». Anche perché termini discriminatori come «madre» e «padre» vanno aboliti a favore di «nongestational» o «nonbirthing parent», cioè «genitore che non gesta» e «genitore che non partorisce», ovvero la grande alchimia del “genitore che non genera”.
Evidentemente esiste ancora qualche motivo, sicuramente di ordine pratico, che impone di distinguere fra un «genitore che gesta» e un “genitore” che non lo fa, ma non fa più parte del vocabolario educato e civile dare per scontato che sia la madre a portare avanti la gestazione di un figlio e a partorirlo. Trovarsi di fronte un «papà cavalluccio» e definirlo “madre” sarebbe infatti cosa veramente imperdonabile.
Vietato il “latte materno” anche negli ospedali del Regno Unito
Il pamphlet dell’università australiana, d’altra parte, non è che un esempio del tentativo di rivoluzione linguistica oggi in atto. Nelle due strutture gestite dal Brighton and Sussex University Hospitals NHS Trust le ostetriche non possono più utilizzare le espressioni «allattamento al seno» e «latte materno». I «reparti maternità» sono diventati «servizi peri-natali» e gli operatori, eliminati con successo i termini «madri» e «donne», sono «orgogliosi di prendersi cura delle persone trans e non binarie». Infatti, secondo quando affermano gli operatori sanitari di quegli ospedali, la narrazione classica di gravidanza, parto e nutrimento del neonato poterebbero con sé «biological essentialism and transphobia» («essenzialismo biologico [sic] e transfobia»),
Nominalismo e nichilismo: la negazione del dolore
L’universitas è stata, un tempo, il luogo dove si imparava che la verità è adaeguatio rei et intellectus: corrispondenza tra realtà e ragione. Il nominalismo gnoseologico – presupposto ormai sottinteso a qualsiasi ricerca “scientifica” – ha però eliminato la relazione tra parola –pensiero – e dato concreto. Nello svilimento dei corpi, che vengono mutilati e plasmati secondo il capriccio di menti sempre più spesso troppo immature per avere raggiunto un’adeguata comprensione di sé, l’illusione menzognera è che modificare la narrazione possa edulcorare i fatti. Un uomo, o una donna, che si trovi per condizione – o condizionamento – a disagio nella relazione con il proprio corpo viene ormai illuso che la “celebrazione” – altro termine significativo utilizzato – della propria “diversità” coincida con la soppressione di qualsiasi descrizione significativa dei fatti.
I nomi della neve
Una leggenda metropolitana vuole che gli eschimesi abbiano un centinaio di parole differenti per indicare la neve, e anche se diversi studi vorrebbero smentire tale affermazione, ne rimane il significato profondo: l’uomo, quanto più si trova a che fare con una determinata realtà, più la osserva, la conosce, la indica. E quanto più cresce la conoscenza, tanto più il linguaggio si fa specifico e circostanziato: la realtà viene indicata con precisione sempre maggiore.
Laddove, invece, sistematicamente il linguaggio viene sfoltito, diradato, impoverito, è evidente che l’intento ultimo sia nascondere qualcosa, qualcosa di scomodo, qualcosa di inguardabile. Appunto di inesprimibile. E questo, solitamente, ha a che fare con il dolore.