Last updated on marzo 5th, 2020 at 03:57 am
Che l’Europa invecchi non è né una novità né un mistero. La Commissione Europea prevede che la spesa sanitaria per gli anziani e per le pensioni, che già è pari a un quarto del Pil complessivo dell’Unione Europea, aumenterà di 2,3 punti percentuali entro il 2040.
L’economista greco-britannico-cipriota, Premio Nobel, Sir Christopher Pissarides, spiegava il 12 febbraio alla testata Euronews l’impatto dell’invecchiamento demografico nelle politiche sociali: «Non c’è dubbio che la salute, come settore dell’economia, comporterà più spese e attirerà più occupazione. Quindi dobbiamo essere molto attenti a come la pianifichiamo in relazione al settore privato e a quello pubblico». La questione riguarderà soprattutto le pensioni: «Il sistema pensionistico dipende interamente da queste politiche. In passato le pensioni in molti Paesi sono state pianificate senza la visione di ciò che sarebbe accaduto in futuro, dimenticando che, quando qualcuno entra nella forza-lavoro e viene iscritto a un regime pensionistico, si tratta di una operazione che durerà per i prossimi quarant’anni. Quindi si deve ripensare al modo in cui si tratta il lavoro, anche oltre l’età pensionabile, che a volte è quella decisa negli anni 1960, e come ciò viene fatto a seconda dell’aspettativa di vita».
Quello pensionistico è il vero scoglio su cui rischia di incagliarsi tutto il sistema welfare state europeo. Per un motivo meramente demografico, si sta arrivando al punto in cui la popolazione è troppo vecchia per pagarsi le pensioni: gli anziani vivono più a lungo e dunque dipendono dalle pensioni per più anni rispetto al tempo in cui il sistema era stato progettato. Al tempo stesso, avendo meno figli, ci sono sempre meno lavoratori attivi che pagano i contributi con cui il sistema pensionistico si alimenta. Dunque: sia meno soldi, sia più pensioni da pagare.
I Paesi dell’Europa settentrionale sono in prima linea in questa tendenza. Secondo lo State of the Nordic Region 2020, rapporto redatto annualmente su iniziativa del Consiglio nordico (il forum di cooperazione tra i Paesi scandinavi), «l’urbanizzazione, il tasso di fertilità in declino e l’aumento dell’aspettativa di vita stanno cambiando la composizione demografica delle regioni e delle città del Nord. Ci si aspetta che queste tendenze di lungo periodo modellino le società nordiche e ne mettano alla prova il welfare nei prossimi anni». Questi Paesi, ovvero Danimarca, Svezia, Norvegia, Islanda e Finlandia, hanno pure investito molto per incoraggiare la natalità (a volte in modo illusorio, per esempio, in Finlandia, dove non si nasce più). Anzi, come ricorda il rapporto: «La Regione del Nord è la patria di alcune delle politiche di maggior sostegno alla genitorialità, in particolar modo nella promozione del coinvolgimento dei padri nella crescita delle nuove generazioni».
L’alternativa sinistra
Però, «nonostante ciò, il tasso di fertilità è ora il più basso di sempre in Islanda, in Norvegia e in Finlandia, mentre le isole Fær Øer sono l’unico luogo in cui il tasso è sufficientemente alto da sostenere la popolazione attuale con la sola crescita naturale». Lo stesso rapporto, invece, ritiene che in 26 municipalità scandinave l’aumento della popolazione sia dovuto alla sola immigrazione.
La proposta prevalente, stando alle riforme pensionistiche già attuate o proposte, consiste nel far lavorare più a lungo i contribuenti. La nuova Commissione Europea intende promuovere il re-inserimento degli anziani, oltre l’età pensionabile attuale, nel mondo del lavoro. «Viviamo un tempo in cui molte sono le sfide legate agli sviluppi tecnologici e all’invecchiamento della popolazione, sia in generale sia nella forza-lavoro. Quindi dobbiamo agire», dichiarava il 12 febbraio Andriana Sukova, vicedirettore generale della Direzione Generale Occupazione della Commissione Europea. Agire in che modo? «Dobbiamo usare i fondi per aiutare le persone […]. Dobbiamo aiutarle a trovare e ad affrontare nuove opportunità di lavoro, ma anche essere pronte per nuove relazioni di lavoro». La soluzione alternativa, proposta soprattutto dalle Sinistre europee, consiste invece nel colmare il vuoto aperto da una popolazione autoctona, in calo e in fase di invecchiamento, con una maggiore immigrazione di giovani con maggiore tasso di fertilità.
Tuttavia, in entrambi i casi, sia che si proponga un innalzamento dell’età pensionabile, sia che si aprano le porte a popolazioni più giovani, non si fa altro che aggirare il problema. Perché la popolazione invecchia? Perché aumenta la speranza di vita, grazie allo sviluppo della medicina e al miglioramento generale della qualità della vita. E ciò è sicuramente un bene. Ma anche perché, riducendosi il tasso di fertilità, nelle nostre società la popolazione anziana, in proporzione, aumenta. La propensione a fare meno figli è direttamente proporzionale all’introduzione dei… sistemi pensionistici pubblici. Il rapporto fra pensioni e denatalità è stato dimostrato con chiarezza anche da due studi economici relativamente recenti, entrambi del 2007, Social Security and Demographic Trends: Theory and Evidence from the International Experience di Isaac Ehrlich (della State University of New York a New Paltz, nello Stato di New York) e Jinyoung Kim (della Korea University a Seul), nonché Fertility and Social Security di Michele Boldrin, Mariacristina De Nardi e Larry E. Jones (del National Bureau of Economic Research di Cambridge, nel Massachusetts).
I guai cominciano con Bismarck
Perché mai le pensioni pubbliche indurrebbero a una natalità minore? Oskari Juurikkala, del think tank londinese Institute of Economic Affairs, lo spiega così: «La prima causa è che [i sistemi pensionistici pubblici] cercano di sostituire la famiglia tradizionale quale rete di sicurezza nella terza età. Questo è l’“effetto sostitutivo” delle pensioni obbligatorie. I sistemi pensionistici assumono varie forme e dimensioni, ma il modello più comune di sistema pubblico è quello a ripartizione. Significa che gli attuali lavoratori pagano i contributi con i propri salari, e i contributi sono distribuiti fra i pensionati odierni. In altri termini, le pensioni sono finanziate tramite un trasferimento intergenerazionale. Questo sistema fu introdotto da Otto von Bismarck (1815-1898) in Germania, da qui si è diffuso in molti altri Paesi nella prima metà del secolo XX. Quando non c’erano sistemi pensionistici pubblici a ripartizione, le famiglie mettevano al mondo figli non solo per il gusto di averli, ma perché i figli provvedevano alla sicurezza sociale dei genitori in tarda età. La sicurezza degli anziani era una causa della fertilità molto evidente in tutto il mondo sviluppato prima del secolo XX e continua a esserlo in Paesi meno sviluppati ai giorni nostri».
Che il sistema pensionistico abbia creato una mentalità egoista, da “qui e ora”, è dimostrato anche da un sondaggio sulla riforma delle pensioni condotto in Italia dall’Ipsos. Alla domanda se fossero disposti a restare più a lungo a lavorare in cambio di una pensione più alta per i propri figli o nipoti, il 61% degli intervistati ha risposto «no» e solo il 30% «sì», mentre il 9% non sa. Quel 61% non vuole lavorare più a lungo, ma non pensa neppure al bene di figli e di nipoti, citato esplicitamente nella domanda. Ed è questo, forse, l’aspetto ancor più importante del sondaggio: i figli sono visti come un costo e nel loro nome non vale la pena di lavorare di più.
Ci si trova di fronte, qui, a uno dei grandi paradossi della politica europea: il dibattito sulle pensioni, infatti, è viziato perché cerca soluzioni a un problema di invecchiamento che le pensioni stesse hanno contribuito a creare. Benché i vecchi sistemi a ripartizione, di stampo bismarckiano, siano superati o in fase di superamento un po’ in tutta Europa, resta ovunque il monopolio statale sulla gestione della staffetta generazionale. La politica non fa altro che proporre di far lavorare i contribuenti più a lungo, oppure di “importare” una forza lavoro giovane. Quando invece si dovrebbe uscire, del tutto, da questo schema e tornare a responsabilizzare la famiglia sul proprio futuro.
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