Last updated on Maggio 22nd, 2021 at 01:50 am
Esiste un prima e un dopo. Un discrimine che separa la scuola come chiunque è abituato a pensarla e la scuola della ormai nota o famigerata DAD, ossia la didattica a distanza: alunni e insegnanti dietro lo schermo di un pc, quando va bene, sennò semplicemente dietro uno smartphone. Chiuso causa CoViD-19 ogni istituto italiano per le vacanze di Carnevale, l’anno passato in febbraio, sino a settembre non si è riaperto più, con l’anno scolastico straniante che ne è seguito.
In mezzo la buona volontà di tanti docenti e la fatica grande di tante famiglie per fare sì che bambini e ragazzi riuscissero a mantenere un livello minimo di cosiddetta normalità nel bel mezzo di una pandemia. Inimmaginabile, prima.
Come naturale, e per fortuna, molti strumenti digitali sono nati e altri si sono sviluppati per “occupare” uno spazio di mercato e, occorre ammetterlo, per supportare docenti e alunni in un cammino spesso molto faticoso.
Che ha sottratto qualcosa, basti pensare alla dimensione della socialità e della condivisione, ma che pure si è rivelato in qualche caso fruttuoso, smuovendo certezze granitiche e asfittiche, e favorendo modalità nuove e inedite di “fare scuola”. Sarebbe dunque sbagliato negare del tutto una funzione positiva.
La classe capovolta, per esempio, un approccio didattico diverso, in cui invece di partire dalla sequenza abituale lezione-frontale-con-spiegazione/compiti/verifica, gli alunni sono invitati ad affrontare l’argomento specifico a casa, in autonomia, per portare poi in classe domande e dubbi, una sorta di sintesi a partire da contenuti elaborati prima e analizzati dopo. Richiede maturità e impegno enormi, ma dà delle soddisfazioni.
WeSchool si propone fra tanti come piattaforma virtuale ricca di strumenti e perfetta per questo modo di “fare scuola”.
Ha un sito web colorato, allegro, pensato per solleticare le fantasie segrete di qualsiasi insegnante che desideri dare smalto e appeal alle proprie lezioni.
Pochi giorni fa, in occasione del 17 maggio, neonata Giornata mondiale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia, WeSchool ha promosso anche su Facebook un questionario che mira a indagare la percezione che nella scuola italiana si ha delle questioni LGBT+. S’intitola appunto Rilevazione nazionale su omofobia, bifobia e transfobia nelle scuole italiane. Si rivolge a docenti e a studenti. Chi è in target lo riceve come “sponsorizzato”, altrimenti lo si legge postato o condiviso da altri.
Si tratta di un modulo Google cui è possibile rispondere (qualunque genitore alle prese con la DAD sa perfettamente di cosa si stia parlando) e pone domande importanti.
Si parte però dal presupposto che nelle scuole italiane omofobia, bifobia e transfobia esistano: altrimenti non sarebbe necessario «rilevarle». Lo si dà insomma per acquisito, e si procede. Si procede rivolgendosi a chi vive la scuola a partire dagli 11 anni (la prima classe della secondaria di primo grado, in genere, talvolta la quinta della primaria) e sino a 60 e più.
Poi lo si fa utilizzando l’asterisco invece dell’indicazione di maschile o femminile: «Non ne sono sicur*», si legge fra l’altro come ultima risposta a ciascuna domanda, quando l’intervistato o l’intervistata (qualora fossero inguaribili retrogradi) non sapesse dare una opinione in merito.
Viene richiesto per esempio «Quanto ti senti impegnat* per i diritti delle persone LGBTQI+?», oppure «Hai pensato che la tua identità di genere non corrispondesse a un certo tipo di modello che la società, i media (social network, tv, giornali), la famiglia, la scuola propongono e mostrano?».
Il passo successivo è rappresentato dalle domande che attengono alla necessità o al desiderio di trattare tematiche LGBT+ nel contesto scolastico e all’inclusività percepita nella propria scuola rispetto a «tutti i tipi di identità di genere (cisgender, transgender, gender queer) e orientamenti sessuali (gay, lesbiche, bisessuali, asessuali)».
E infine: «Come ti sentiresti ad affrontare a scuola un percorso che tratta di identità di genere, sesso e orientamento sessuale e omobitransfobia?».
A questo punto la matassa si dipana, e il sospetto che si tratti di un questionario neppure troppo timidamente a scopo “commerciale”, destinato a saggiare la disponibilità della clientela all’acquisto per interposto ente statale di un bel corso online preconfezionato, fa ben più che capolino. Del resto, anche nel post su Facebook si fa riferimento all’intenzione di realizzare «un’attività di Educazione civica legata ai diritti LGBTQI+». Educazione civica che da Cenerentola dei programmi scolastici ha raggiunto ormai lo scranno da principessa, dal momento che consente di ammannire la verità che si vuole su tutto ciò che si vuole, basta saper girare la frittata giusta.
Non è possibile, però, ignorare la dimensione culturale e antropologica che tale questionario riveste, né gli episodi più o meno recenti in cui siano entrati nella scuola argomenti sensibili che hanno messo a tema princìpi fondamentali e fondanti la persona, talvolta con l’approvazione dei genitori, talvolta no.
È di questi giorni la vicenda che ha visto coinvolti, nel Lazio, la Regione, l’Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini di Roma e le scuole.
Il questionario si chiude con quella che si definisce una «domanda aperta», bontà loro facoltativa, e cioè «Come ti sei sentit* a compilare questo questionario? Lascia un commento». La domanda più interessante, effettivamente.
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