Last updated on Luglio 8th, 2020 at 07:38 am
Non si obbedisce alle leggi soltanto per paura della sanzione. Certo, la sanzione ‒ come spiega bene qualsiasi giurista, o addirittura filosofo del diritto, nemmeno particolarmente virtuoso ‒ svolge una funzione “pedagogica” importante, ma è la bontà intrinseca di una legge lo sprone che porta a osservarla. Triste sarebbe infatti quella civiltà che compisse il bene solo per paura della sanzione.
Questo, ovviamente, se la legge positiva riflette, rispecchia e riverbera la legge naturale: altrimenti esiste un sacrosanto diritto di resistenza, che va dalla disobbedienza civile di Henry David Thoreau (1817-1862) al tirannicidio di san Tommaso d’Aquino (1225-1274), senza il quale non distingueremmo un volgare omicida di strada dall’Operazione Valchiria o dal beato Josef Mayr-Nusser (1910-1945).
Le legge buona, infatti, è tale perché aiuta a seguire il bene: non lo produce e non lo causa, ma, riconoscendolo, lo indica, magari pure implicitamente. La connaturalità al bene di cui l’uomo è fatto porta naturalmente l’uomo a seguire il contenuto di una legge buona. È qui infatti ‒ spiega bene sempre il giurista qualunque, o addirittura il filosofo del diritto, nemmeno particolarmente virtuoso, di cui sopra ‒ che entra in gioco e che si comprende la funzione della sanzione: la sanzione serve a richiamare il bene superiore indicato dalla legge buona e a cui l’uomo per connaturalità tende, ma che per dimenticanza (quella che per esempio nel contesto giudeo-cristiano si chiama peccato) trascura. Altrimenti, se non va d’accordo con la bontà superiore che la legge indica, cioè con la legittimità della legge, la sanzione è una imposizione indebita. Nei regimi dove la legge è ingiusta resta infatti soltanto la sanzione, immotivata e punitiva.
Lo stesso, ma specularmente, è vero per le leggi cattive: quelle che creano nell’uomo la familiarità con il male. Qui entra in gioco un meccanismo particolare della mente umana, che di per sé si fonda sul principio sano dell’autorità, ma che in assenza di autorevolezza, diventa mero autoritarismo. È il meccanismo per cui, se una realtà è legge dello Stato, finisce per essere automaticamente considerata buona, quale che sia. Magari si conserva l’idea che in origine non fosse buona, ma poi subentra l’abitudine, e l’abitudine si trasforma in costume. Quanto volte ci siamo chiesti infatti perché mai una popolazione palesemente da tempo vessata non insorga in massa contro il tiranno? Per svariati motivi, sì, ma fra questi anche per il fatto che ci si è fatto il callo. Non a caso vengono considerati eroi i grandi testimoni che si ribellano, mentre la massa resta inerte, benché, di per sé, quel loro ribellarsi sia l’unica e più naturale cosa da fare.
Un esempio evidente, ma anche stridente, di tutto questo è l’Irlanda.
L’Irlanda è un Paese di antichissima e radicata tradizione religiosa, dove la morale cristiana ha plasmato l’ethos nazionale. Da poco l’Irlanda ha una legge che ha sbaragliato la sua lunga, storica opposizione all’aborto e i numeri dell’aborto legale superano già di gran lunga quelli dell’aborto fuori porta cui si ricorreva prima. La legge dello Stato, come una pietra filosofale al contrario, ha già trasformato il male in bene e la temperatura della cattiveria socialmente percepita dell’aborto è già scesa bruscamente. Non c’è nemmeno voluto molto tempo. Oggi è l’Irlanda a ricordarci come davvero la dimensione politica della battaglia per la difesa dei princìpi non negoziabili non sia affatto un optional.
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