Last updated on Maggio 26th, 2020 at 04:34 am
Ho saputo della non-legislazione sull’aborto che vige in Giamaica più una quindicina di anni fa, negli Stati Uniti d’America, a una riunione di pro-lifer, direttamente da un’attivista antiabortista giamaicana, cattolica, mentre si discuteva di vita e famiglia assieme a una musulmana siriana davanti a un paio di birre (noi sì, l’amica musulmana no). È da allora che questa peculiare situazione giamaicana colpisce la mia fantasia, o quella sua preziosa facoltà che il pensatore e uomo politico irlandese Edmund Burke (1729-1797) chiama «immaginazione morale».
La Giamaica sembra la terra dimenticata dal tempo dove vive un popolo dimenticato dal tempo, per riecheggiare il titolo del primo e del secondo romanzo della «trilogia di Caspak» dello scrittore statunitense Edgar Rice Burroughs (1875-1950), il creatore di Tarzan e di John Carter. È come se là tutto si fosse fermato. Come se sull’isola l’evoluzione (uso il termine con ironia enorme) si fosse inceppata, senz’accorgersi di cosa accadesse attorno. Le cose là sono come erano più di 150 anni fa (grosso modo gli anni che ha la repubblica italiana, dove invece l’aborto legale ha appena compiuto 42 anni), quando l’ordinamento coloniale che regolava tante cose della vita quotidiana, bene o male non è questo il punto qui, semplicemente non disse alcunché sulla soppressione volontaria di una vita umana innocente ancora nel grembo della propria madre semplicemente perché su questo argomento non c’era nulla da dire. La ragione rendeva evidente che se sopprimere una vita umana innocente ancora nel grembo della propria madre è materialmente possibile, sopprimere una vita umana innocente ancora nel grembo della propria madre è però un crimine che come tutti i crimini la legge non può permettere.
La Giamaica ha vissuto così uno splendido isolamento senza che i marosi del mondo agitato tutto attorno la lambissero. È stata e ancora è un pezzo di un mondo diverso, antico, normale che “clandestinamente” è sopravvissuto nella tempesta senza chiederne scusa. La testimonianza di una civiltà diversa, dove la vita umana innocente era intangibile. Una storia bellissima, insomma, di una “dimenticanza” virtuosa, che meriterebbe di essere trasforma in fiaba o in un racconto ucronico di un mondo al contrario ma una volta tanto dalla parte giusta. Adesso però la fiaba giamaicana si sta incrinando. Il resto del mondo si è accorto di quell’isola sperduta in ritardo sul tempo e la sta aggredendo. Il Nulla dello scrittore tedesco Michael Ende (1929-1995) avanza inesorabile, divorando una terra dopo l’altra, una vita dopo l’altra. Tutto appare perduto. Forse. Anche uno solo può fare infatti la differenza. Un giamaicano solo può fare la differenza, se riuscirà, come ne La storia infinita, a dare il nome di una mamma all’Infanta Imperatrice di quel luogo incantato: il nome di una mamma in attesa di un bambino che vedrà la luce contra mundum, una mamma giamaicana che non si arrende e che battezzerà con il proprio nome l’Infanta Imperatrice dei Caraibi e del mondo intero, la vita.
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