Last updated on marzo 16th, 2020 at 01:09 pm
È uno solo il pericolo che la blindatura dell’Italia tenta fondamentalmente di scongiurare: il collasso del sistema sanitario nazionale, che sopraggiungerebbe qualora il numero di contagiati da coronavirus fosse così alto da sforare la capacità di assistenza medica. Dentro questo quadro, s’inserisce quindi la procrastinazione di tutte le operazioni chirurgiche non strettamente indispensabili, le prestazioni ambulatoriali non urgenti e in generale tutte le attività rimandabili, onde concentrare il personale sul Covid-19.
Fra le prestazioni sospese rientrano anche tutti gli interventi ginecologici, compresa l’asportazione di fibromi, e tutte le pratiche di procreazione medicalmente assistita (giustamente fa eccezione l’ostetricia). Ma l’aborto no, non si ferma. Perché è considerato urgenza.
Sta scritto a chiare lettere nella legge del 22 maggio 1978 n. 194, la «Legge 194», che depenalizza e disciplina le modalità di accesso all’aborto. L’articolo 5 della legge dice: «Quando il medico del consultorio o della struttura socio-sanitaria, o il medico di fiducia, riscontra l’esistenza di condizioni tali da rendere urgente l’intervento, rilascia immediatamente alla donna un certificato attestante l’urgenza». Qualora non venisse riscontrato il caso d’urgenza, alla donna viene rilasciato un documento «[…] attestante lo stato di gravidanza e l’avvenuta richiesta, e la invita a soprassedere per sette giorni», entro i quali la donna, se non ha cambiato idea, può presentarsi «[…] per ottenere l’interruzione di gravidanza». Questo per quanto riguarda gli aborti praticati entro la dodicesima settimana di gravidanza. Oltre i 90 giorni di gravidanza, dice l’articolo 6, è possibile ancora abortire il bambino in presenza di gravi pericoli per la vita della madre oppure «quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna». Se, dice l’articolo 7, il medico interpellato accerta la presenza di quelle condizioni «[…] è tenuto a fornire la documentazione del caso e a comunicare la sua certificazione al direttore sanitario dell’ospedale per l’intervento da praticarsi immediatamente».
La legge italiana considera dunque l’aborto volontario una prestazione medica non differibile: “iFamNews” se ne è sincerato interpellando diversi operatori sanitari. L’aborto fa infatti parte di quelle prestazioni per le quali il tempo incide sulla riuscita, sulla salute della paziente o sulla qualità della cura, esattamente come per un arto fratturato o per un parto cesareo programmato o per un polipo sanguinante. Fissando un limite per l’aborto alla dodicesima settimana di gravidanza, e fissando criteri specifici per l’aborto oltre il novantesimo giorno, il rischio di superare limite e criteri in caso di procrastinazione è molto concreto e così spinge a rileggere tutto, sempre, nella chiave dell’urgenza. Un’anestesista informa “iFamNews” che, anche in caso di positività al coronavirus, una donna avrebbe comunque diritto di ottenere l’interruzione di gravidanza, la quale verrebbe negata solo se la madre presentasse sintomi incompatibili con un intervento chirurgico. Forse che qui possa pure pelosamente insinuarsi la fake news sulla necessità di procedere all’aborto qualora una donna incinta dovesse essere contagiata, fake news che il prof. Giuseppe Noia ha scientificamente confutato?
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