Last updated on marzo 23rd, 2020 at 06:42 am
Approvata in Nuova Zelanda la nuova legge sull’interruzione volontaria della gravidanza, fortemente voluta dal premier Jacinta Ardern: se fino a ieri l’aborto era considerato un reato, ed era permesso solo in caso di incesto, malformazione del feto o gravi rischi per la salute materna, ora è una pratica depenalizzata, disponibile alla donna “su richiesta” fino alla ventesima settimana di gestazione. Per le settimane successive basterà poi comunque la semplice dichiarazione del medico curante della madre, che potrebbe affermare, tenuto conto delle condizioni fisiche e mentali della stessa, che «l’aborto sia appropriato alle circostanze».
La dottoressa Catherine Hallagan, presidente della NZ Health Professionals Alliance, ha dichiarato che «l’ambito del benessere […] è così ampio che praticamente ogni richiesta potrebbe essere accettabile». La possibilità di porre fine alla gravidanza si estenderà insomma fino all’atto stesso della nascita, esattamente come prevede il Reproductive Health Act dello Stato di New York. La nuova legge neozelandese, definita dalla Hallagan una «parodia dell’assistenza prenatale», lascerà sole le donne in difficoltà, quando in precedenza era previsto un periodo di riflessione, l’intervento di uno psicoterapeuta e l’approvazione di due medici. Il ministro neozelandese della giustizia, Andrew Little plaude perché l’aborto non è più considerato un crimine, ma una «questione di salute»: purché sia sempre più facile abortire, viene tolto qualsiasi tipo di consulenza obbligatoria. L’obiezione di coscienza per gli operatori è prevista, ma ogni datore di lavoro può decidere che tale obiezione «influisce sulla capacità dell’operatore stesso di fornire il servizio», permettendo così di risolvere legittimamente il rapporto professionale.
In questo modo l’aborto è stato definitivamente rimosso dal Crimes Act e nessuna tutela verrà più riservata al nascituro, che, come ha dichiarato la portavoce di Family First NZ, Gina Suterland, viene considerato alla stregua di «un’appendicite, delle tonsille o della cistifellea: semplicemente tessuti rimossi come parte di una “procedura sanitaria”».
Anche i vescovi cattolici avevano espresso la propria preoccupazione per una legge che «non pone più alcun obbligo legale a considerare i diritti dei nascituri»: qualsiasi legislazione che consideri l’aborto un “diritto” da favorire, senza muoversi a sostegno della gravidanza in condizioni di fragilità, è un grave attacco alla famiglia e alla vita.
E mentre c’è chi in Nuova Zelanda si scandalizza per la difficoltà di creare “aree sicure” intorno alle cliniche abortiste – così che i pro-lifer non possano avvicinarsi più di tanto, cioè ledendo la libertà di parola e di manifestazione pacifica dei cittadini – un altro emendamento è stato rigettato dai due terzi dei parlamentari neozelandesi, quello che prevedeva la cura di un bambino nato vivo in seguito a un aborto fallito. Tale modifica al disegno di legge, proposta dal parlamentare Simon O’Connor, afferma che un operatore sanitario, di fronte alla nascita di un bambino vivo dopo un tentativo di aborto, ha il dovere di fornire al bambino stesso cure mediche adeguate, così come di fronte a qualsiasi bambino appena nato. Non si tratta di mere disquisizioni accademiche: esistono infatti diversi casi di bambini sopravvissuti all’aborto – come la famosa Gianna Jessen – e i limiti sempre più avanzati entro cui l’interruzione volontaria di gravidanza è permessa, e le tecniche sempre più all’avanguardia di cura per i neonati prematuri rendono tali scenari sempre più frequenti. La bocciatura dell’emendamento proposto da O’Connor «è stata una vergognosa dimostrazione di una totale mancanza di rispetto per i diritti umani», ha affermato Bob McCoskrie, direttore nazionale del Family First NZ. Ed è proprio così: l’aborto è un omicidio, che avvenga dentro o al di fuori dell’utero materno nulla cambia, come anche questa abominevole legge dichiara.