Last updated on Luglio 30th, 2020 at 04:04 am
La libertà è un privilegio che accomuna l’Uomo a Dio (è così anche per chi in Dio non crede). In alcuni luoghi del mondo, è un lusso: per esempio nella Cina neo-post-comunista, ma anche in certi angoletti delle nostre società ricche di nulla dove il “politicamente corretto”, cioè la menzogna eretta a criterio, castrano e censurano.
Ma quid est libertas? Nemmeno sotto tortura mi lancerò ora in una (pseudo)dotta disquisizione filosofica sul tema, non fosse che per timore reverenziale davanti a ingegni indubitabili che già si sono cimentati con esso, sovente con risultati eccellenti. Piuttosto (mi) pongo solo una questione minimale. La libertà ha limiti?
Se la libertà è ciò che ci accomuna a Dio, parrebbe di no. Potrebbe essere l’onnipotenza dell’uomo, addirittura il suo delirio di onnipotenza. Invece no, la libertà ha un limite. Poiché anche Dio ha un limite. Il limite di Dio è infatti la verità. Anche il limite della libertà è, pertanto, la verità. Il bello, però, è che quel limite per Dio non è affatto un limite: lo chiamiamo noi uomini così perché non vediamo. Quindi Dio ha un limite che non è un limite. Perché Dio è libertà e verità assieme, senza distinzione, senza “seconde nature”. Il difficile è piuttosto per l’uomo, che tende a trasferire la distinzione logica fra libertà e verità sul piano ontologico facendone due realtà distinte, persino contrapposte. Se si sforzasse di imitare invece quel Dio a immagine del quale è stato creato, l’uomo vedrebbe che la potenza della propria libertà è la verità stessa. Il limite cesserebbe dunque di esistere perché cesserebbero di esistere le condizioni della sua esistenza.
Tutto questo si capisce bene nel giornalismo. La libertà di stampa è assoluta perché è la libertà di dire la verità. Essendo la verità un assoluto, lo è infatti anche la libertà. La verità detta rende allora liberi i giornalisti, cioè veri professionisti. Nessuno ha diritto all’errore, ma tutti, giornalisti e non, abbiamo diritto alla verità: diritto di dirla, di leggerla, di ascoltarla, di praticarla, di vederla praticata e di esigere che lo sia.
Il cardinale australiano George Pell è stato lapidato in effigie per anni perché accusato di avere commesso il turpissimo crimine. Solo che non era vero, e dopo anni di gogna, sopportati con dignità e stile dal porporato, che pure non ha rinunciato a battersi con pacatezza per la verità, lo si è scoperto e l’Alta Corte infine lo ha prosciolto da ogni accusa.
Giunge ora notizia di un tribunale di Melbourne che ha vietato ai media di pubblicare i dettagli di un caso di abuso sessuale avvenuto negli anni 1990 ai danni di due ragazzi in cui il card. Pell sarebbe stato coinvolto e che però decine di giornalisti abbiano violato la decisione, finendo essi stessi sotto processo. L’ordine del tribunale è stato emesso per impedire a informazioni relative a procedimenti precedenti di influenzare un secondo processo, che è stato successivamente abbandonato. Giusto. Il sentito dire è, si sa, la madre sempre incinta della calunnia: basta che uno ipotizzi qualcosa a danno di qualcun altro e quest’ultimo non riuscirà mai a scrollarsi di dosso sino in fondo la diceria anche se la verità sarà provata mille volte. Il grande Luigi Pirandello (1867-1936) ci ha costruito sopra una novella formidabile, La patente (1911); la cantante Mia Martini (1947-1995), invece, ci è morta dentro.
Ora, davanti al tentativo del tribunale di Melbourne di impedire ai media di “sensazionalizzare” una giuria, la stampa australiana si interroga sulla libertà di stampa, denunciandone la mancanza o quantomeno la riduzione. Se invece i giornalisti cominciassero a pensare come quel Dio a immagine del quale sono fatti, lascerebbero perdere, comprendendo che la libertà non ha alcun limite giacché coincide con l’ascoltare, il fare e il seguire la verità. Da Pulitzer celeste.
Commenti su questo articolo