Last updated on Ottobre 1st, 2021 at 04:52 am
Con l’autunno si prospettano sicuri e sensibili i rialzi delle bollette energetiche e non solo. Ma perché i prezzi salgono? E non solo i prezzi del gas naturale, a cui sono principalmente dovuti gli ultimi rincari, ma anche quelli di petrolio, metalli e materiali industriali, fino ad arrivare ai prodotti alimentari? Qual è la causa di questo nuovo fardello che si sta abbattendo sulle famiglie italiane, già provate da oltre un anno e mezzo di emergenza continua?
Una prima spiegazione è legata alle conseguenze pesanti dei lockdown indiscriminati, sciaguratamente imposti dai principali governi mondiali a partire dal marzo 2020. Le varie filiere dell’economia reale, infatti, hanno subito, praticamente ovunque nel mondo, rallentamenti gravi e blocchi delle attività di produzione e distribuzione (la cosiddetta supply-chain disruption) non ancora completamente ripristinate. Però, se si trattasse solo di questo, per quanto grave sia, sarebbe davvero un effetto “temporaneo”, così come raccontano le Banche centrali.
L’estinzione dell’economia reale
Ma non è così. L’inflazione è infatti anche e soprattutto un fenomeno di natura monetaria. A partire specialmente dalla Grande crisi finanziaria degli anni 2007-2009 (GCF), la massa di liquidità immessa nei circuiti dalle Banche centrali e dalle banche commerciali a riserva frazionaria ha subìto un’escalation davvero impressionante: dai 20-25mila miliardi di inizio secolo, la liquidità “M2” (la cosiddetta liquidità “secondaria”, cioè moneta, depositi in conto corrente e in genere tutte le attività con elevata liquidità e valore certo), è salita a circa 40mila miliardi negli anni della GCF fino agli 80mila miliardi pre-CoViD-19, per poi balzare sui 100mila miliardi attuali (dati in dollari statunitensi).
Un processo di finanziarizzazione dell’economia, questo, con fiumi di liquidità generata ex nihilo in modo completamente non correlato alla crescita dell’economia reale, che ha fatto salire i prezzi degli immobili e le quotazioni dei mercati azionari assieme ai corsi dei titoli obbligazionari, spingendone i rendimenti verso e sotto lo zero: un fenomeno che la Scuola austriaca dell’economia definisce asset class inflation, inflazione degli asset.
Aumentare la liquidità oltre la quantità che sarebbe prodotta naturalmente senza manipolazioni politiche dalle forze di mercato è infatti un fenomeno inflazionistico in sé, anche se non si dovesse scaricare subito sui prezzi alla produzione e sul carrello della spesa (quella, cioè, a cui ci si riferisce comunemente quando si impiega il termine «inflazione», ma che ne rappresenta solo una conseguenza e un aspetto particolare).
Nonostante l’enorme liquidità, negli anni passati i prezzi di beni e servizi sono rimasti generalmente sotto controllo, a causa principalmente dell’innovazione tecnologica, della globalizzazione economica che ha comportato maggiore concorrenza e dell’effetto calmierante sulla domanda finale indotto dall’invecchiamento demografico. Da molti mesi, tuttavia, si ripetono segnali chiari del fatto che le tensioni inflazionistiche abbiano iniziato a manifestarsi anche sui prezzi alla produzione e al consumo, e non solo per l’effetto evidenziato della disruption sul lato dell’offerta, ma anche per l’accelerazione nell’iniezione senza precedenti di liquidità post-CoViD-19, altri 20mila miliardi di dollari statunitensi dal gennaio 2020.
A ciò si aggiungano le politiche fiscali fortemente espansive dei governi, che hanno portato a rialzi sensibili dei debiti pubblici, saliti a livello mondiale, secondo stime del Fondo Monetario Internazionale, al 101,5% del PIL a fine 2020 (in Italia siamo al 160% del PIL).
La massa di debiti globali, pubblici e privati, è balzata dai 250mila miliardi di dollari statunitensi di fine 2019 alla cifra monstre di 277mila miliardi di fine 2020 (circa il 365% del PIL mondiale).
In tale contesto le maggiori Banche centrali del mondo giocano la carta estrema dell’uscita inflazionistica dalla crisi, come dopo le guerre. Negli anni a venire proseguiranno verosimilmente con la repressione dei rendimenti obbligazionari verso e sotto lo zero, continuando con accanimento il rialzo dei prezzi di beni e servizi, in modo da portare i rendimenti reali (cioè i rendimenti nominali meno tasso di inflazione) in zona ampiamente negativa.
La droga monetaria
Le politiche monetarie ultra-espansive e gli obiettivi inflazionistici perseguono il fine dichiarato di stimolare gli investimenti e la ripresa economica, ma nella realtà sono principalmente orientate alla stabilizzazione del sistema finanziario, i cui squilibri gravi (l’eccessivo indebitamento, pubblico e privato) sono tenuti sotto controllo dai rendimenti artificialmente repressi. Ma i rendimenti schiacciati sono proprio una delle cause dell’indebitamento eccessivo, ieri come oggi.
È una spirale perversa che si autoalimenta da molti anni, ben prima del CoViD-19: liquidità-debito-liquidità-debito, vale a dire una vera e propria “trappola del debito” che per stare in piedi richiede dosi crescenti di “droga monetaria”.
L’ultimo atto è quello di “tassare” di fatto il risparmio, di far pagare chi concede un prestito con l’imposizione di “rendimenti reali negativi”, beffando così la formica a beneficio della cicala: dove la formica è tendenzialmente il risparmiatore piccolo e medio, cioè la famiglia media, mentre la cicala sono i grandi gruppi industriali e finanziari più gli Stati sovrani, pesantemente indebitati. Una sorta di anti-Robin Hood, un’usura al contrario, insomma, che sfocia nel «socialismo finanziario» delle Banche centrali: con buona pace di chi si è fidato dell’art. 47 della Costituzione italiana, con cui si chiude il Titolo III dedicato ai Rapporti economici, dove si legge che «la Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme».
Se questo è il quadro, è chiaro che le Banche centrali continueranno a minimizzare i rischi inflazionistici per proseguire con la manipolazione al ribasso dei rendimenti nominali dei titoli obbligazionari tenendo così il sistema in un contesto di rendimenti reali negativi, per anni a venire. L’inflazione non è né subìta né tollerata, è voluta: a beneficio dei debitori, a danno dei risparmiatori e dei titolari di redditi fissi. Ma ovviamente non lo si scrive.
Socialismo liberale
E non è ancora tutto. La “transizione ecologica” che i principali governi mondiali vogliono attuare, nella prospettiva dell’Agenda ONU 2030 sul cosiddetto «sviluppo sostenibile», comporterà costi enormi a carico dei consumatori e dei contribuenti, con una contestuale falsificazione della concorrenza.
La rivoluzione “verde”, come tutte le ideologie, costerà molto cara alle famiglie: un sacrificio necessario sull’altare di Gaia. “Grazie” alla «grande opportunità» del CoViD-19 si è infatti entrati nel decennio del «Grande Reset», dove il potere pubblico, non solo degli Stati, ma anche quello sovranazionale, invaderà sempre più gli spazi di autonomia e di libertà di scelta dei privati, come generalmente accade durante i periodi di crisi. Gli anni 2020 non si prospettano come una replica dei roaring twenties – gli anni “ruggenti” del secolo scorso –, ma più probabilmente come quelli che potremmo battezzare i bleating twenties, gli anni “belanti”: una gigantesca ridistribuzione della ricchezza, con attacchi alla proprietà privata e al risparmio, alla privacy, alla libertà di iniziativa economica e alla libertà tout court, con invadenza pubblica crescente nel privato, capitalismo clientelare e richiesta crescente di assistenzialismo.
L’esito di tale processo, se non sarà arrestato, sarà un progressivo svuotamento e depauperamento della società civile, con un ulteriore accentramento della ricchezza e delle decisioni in “cabine di regia” sempre più lontane. Il conto più salato lo pagheranno le famiglie, in particolare il ceto medio: risparmi non remunerati e “svalutati” dall’inflazione, salari stipendi e pensioni che faticheranno a mantenere il passo con il rialzo dei prezzi di beni e servizi, maggiore pressione fiscale (se aumenta la spesa pubblica aumenta anche per definizione la pressione fiscale perché qualcuno il conto alla fine lo paga per forza) e minore libertà di scelta e di movimento. La contrazione in atto del ceto medio e degli spazi di libertà sono da considerarsi un indicatore evidente dell’avanzata dello statalismo, cioè di una forma di “socialismo liberale”, con buona pace di chi continua a denunciare un inesistente «capitalismo selvaggio».
Acquisire e far acquisire consapevolezza dell’Agenda 2030 del «New Normal post-pandemico» è imprescindibile per non divenire sudditi belanti senza neppure rendersene conto.