Last updated on Febbraio 21st, 2020 at 08:43 am
C’erano già sentori la settimana scorsa, con l’uscita su Il Messaggero, ripresa poi dal Corriere della Sera: partendo da una ricerca secondo cui, in alcune regioni italiane, la frequenza all’asilo pubblico sfiora livelli bassissimi (tra il 2% e il 4%, secondo dati forniti da Save the Children), il segretario del Partito Democratico, Nicola Zingaretti, e il viceministro all’Istruzione, Anna Ascani, colgono la palla al balzo per introdurre il concetto di «scuola dell’infanzia diritto di tutti». E il comitato Difendiamo i nostri figli è già pronto a dare battaglia.
Stabilendo una relazione tra «l’importanza della scolarizzazione precoce» e «il tasso di disoccupazione femminile che raggiunge picchi altissimi nelle regioni dove i bambini non possono frequentare l’asilo», già il sottosegretario al ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Francesca Puglisi, ha manifestato l’intenzione di abbassare ai 3 anni l’inizio dell’obbligo scolastico. Lunedì 17 febbraio è giunta però formalmente la proposta avanzata da Liberi e Uguali sul tavolo di riforma della scuola: ampliare l’obbligo scolastico a partire dai 3 anni (invece dei 6 attuali) e portarlo a conclusione solo al raggiungimento della maggiore età (quando ora arriva ai 16 anni). A fronte di tale proposta, al cui riguardo «non ci sono chiusure nette», il ministro dell’Istruzione, Lucia Azzolina, ha risposto assicurando una riflessione sul tema, ma sottolineando che le priorità attuali sono due: «la dispersione scolastica» e gli «asili nido».
Da dove nasce l’idea di abbassare l’inizio della scolarizzazione “obbligatoria”? Una prima problematica riportata sarebbe l’indisponibilità dei posti necessari nelle scuole di Stato: già ora, a fronte di circa 900 mila bambini iscritti agli “asili” statali, 524 mila frequentano istituti paritari (con notevole esborso da parte delle famiglie). Stranamente, però, il Corriere della Sera titola Oggi frequenta solo il 12% dei bimbi, dato, questo, che, sempre fornito da Save the Children, si riferisce però alla media nazionale di bambini frequentanti un asilo nido pubblico. Quindi, che c’entra? «Occorre fornire a tutti i bambini servizi educativi di qualità […] nonché misure a sostegno delle loro famiglie e della conciliazione della vita lavorativa e familiare», parole di Raffaella Milano, Direttrice dei Programmi Italia-Europa di Save the Children. Sfugge il nesso.
Il “modello alla francese”
La Ascani invece spiega: «più che di obbligo parlerei di un diritto da garantire: il diritto dei bambini di andare a scuola dai 3 anni, a poter accedere a questo primo step della formazione e dell’educazione. È noto che i bambini che partono dalla scuola dell’infanzia hanno meno difficoltà negli studi ed escono meglio dal percorso formativo». Resta oscura la fonte di tale affermazione, non sostenuta da dati concreti. Si può invece provare a dipanare il pensiero soggiacente: l’asilo dovrebbe essere un diritto di ogni bambino, siccome le risorse statali non sono sufficienti per far fronte a tale diritto, considerando che esistono strutture paritarie che sopperiscono alle mancanze dello Stato, rendere “obbligatorio” l’asilo sarebbe un modo per garantire a ogni bambino un posto alla scuola dell’infanzia con tariffe statali. Si tratta dunque di sollevare le famiglie da una ingiusta penalizzazione: sia per indisponibilità di risorse statali sia per scelta personale, è giusto che chi iscriva il proprio bambino a una scuola paritaria non sia gravato di una retta ulteriore. Si parla infatti di un “modello alla francese”, che utilizza convenzioni tra lo Stato e le strutture private. Ma, di nuovo, perché l’obbligo?
Non sarebbe sufficiente intervenire sollevando le famiglie del costo della retta dell’asilo paritario, senza andare a interferire con le scelte personali di ognuno? Come è possibile che, ogni volta che si parla di famiglia, in ogni dichiarazione di “libertà” e di “sostegno” a ogni ricorrenza della parola «diritti» spunti da qualche parte un obbligo per i genitori?
“Orizzonte scuola” informa che, in Italia, la frequenza alle scuole dell’infanzia è attualmente superiore al 91% (dati del 2019): non si vede dunque come sia possibile che in alcune regioni sfiori il 2% (probabilmente qualcuno ha confuso scuola dell’infanzia e asili nido). In Italia, inoltre, non esiste “l’obbligo di frequenza scolastica”, bensì «è obbligatoria l’istruzione impartita per almeno 10 anni e riguarda la fascia compresa tra i 6 e i 16 anni» dice il Ministero. Tale obbligo può essere assolto «nelle scuole statali e paritarie, nelle strutture accreditate dalle Regioni per la formazione professionale, attraverso l’istruzione parentale». Non esiste perciò nessun “diritto alla scuola dell’infanzia”, bella formula per suggerire, tra le righe, come sia necessario che lo Stato si prenda carico della formazione dei bambini, fin dalla più tenera età, mentre i genitori sono impegnati in altro, e in particolare le mamme «lanciate nel mondo del lavoro».
È necessaria davvero, invece, una politica che sostenga la famiglia nell’impegno educativo, valore sociale mai abbastanza riconosciuto, non sottraendo responsabilità ai genitori, non vessandoli con ulteriori obblighi calati dall’alto volti a determinare comportamenti predeterminati, ma nel rispetto della piena libertà. Non è un caso che stia prendendo sempre più piede l’esperienza delle scuole parentali e di famiglie che praticano l’homeschooling: scelte particolari, certo, ma che testimoniano quanto il Paese reale sia lontano dalle elucubrazioni della politica di questo governo, sempre più statalista e liberticida.