Last updated on Settembre 16th, 2021 at 03:10 am
Quella volta l’inventore di Richmond, nel Surrey inglese, si era spinto più in là. Più in là ovviamente nel tempo. E non era nemmeno sicuro del luogo esatto in cui la sua formidabile macchina del tempo l’avesse portato. Poteva ben essere uno dei regni enigmatici visitati da Lemuel Gulliver o una delle terre misteriose esplorate dal capitano Nemo. Fatto sta che quel Paese era funestato da un terribile morbo.
Letteralmente il governo di quel Paese non sapeva più che pesci pigliare. Il nostro inventore osservava tutto, prendendo nota. Volle apposta trascorrere diverso tempo in quel Paese, perché non era facile capire bene cosa vi succedesse davvero. Le notizie si rincorrevano, l’una falsificando l’altra, tutte affastellandosi in fascine che poi qualcuno regolarmente buttava per sostituirvene di fresche e altrettanto inservibili. Ognuno diceva la propria, i commentatori si accapigliavano in presa diretta, gli organi di informazione ripetevano quel che potevano e faceva comodo, la gente era frastornata. Soprattutto non capiva e, non capendo, non sapeva che fare.
Un giorno si fidava di questo e quello seguente era costretta a dare retta all’altro. Si chiudeva in casa per la paura i giorni dispari e quelli pari usciva spavalda a sfidare la sorte. Ricorreva a unguenti e impiastri il fine settimana e nei feriali assumeva bevande e tisane. Qualcuno si iniettava soluzioni, laddove gli altri si ritraevano inorriditi. Qualcuno gridava e altri urlavano. Certuni erano terrorizzati, gli altri impauriti.
L’inventore era perplesso. Come avrebbe fatto quella gente a cavarsi d’impaccio? Lui stesso era timoroso, non sapeva come pensarla e smise, come tutti, di pensare.
Dopo settimane, anzi mesi, di parapiglia, di indicazioni contrastanti, di pareri autorevoli fondati autorevolmente sul nulla, il governo di quel Paese lontano nel tempo e nello spazio, dissimile da tutti e uguale a nessuno, escogitò una misura nuova. Marchiò tutti stampigliandone con colore indelebile un avambraccio, onde i simili si riconoscessero fra loro e gli altri stessero lontani.
Era il contrassegno di cui venivano dotati tutti i cittadini di quel Paese che avessero obbedito alle misure di contrasto al morbo indicate dal governo stesso. Nessun obbligo, per carità. Solo indicazioni forti e moral suasion energiche, in più quel bel tatuaggio alla moda.
Il messaggio era semplice e la risposta era contenuta nella domanda. A chi avesse dato il braccio veniva garantita la circolazione, l’ingresso qua e l’uscita là, cinema, teatro, sociability e tante altre belle cose normali. L’ovvio, cioè, anzi la libertà. Agli altri invece un po’ meno.
Fu allora che prese per le strade a montare una grande rivolta come l’inventore di Richmond ricordava di avere veduto prima. Molti, infatti, non ci stavano, non volevano farsi segnare a quel modo. Ne seguì qualche tafferuglio, ma il governo di quel Paese era raffinato e scaltro, e impedì efficacemente che la protesta dilagasse in tragedia. Il primo ministro prese quella sera, quindi, la parola a reti unificate, comprese le stazioni radio, la filodiffusione e i tam tam della jungla.
Parlò e sorrise. Era davvero rassicurante, ben vestito, cravatta dai colori pastello, nessuna smorfia, anche inavvertita, che potesse incrinare la fiducia, dolce e suadente, che il suo carisma ispirava. Parlò, non molto in realtà, ma spiegò. Finalmente. Spiegò che il morbo dilagava, cresceva, era indomabile. Che le sue variazioni genetiche ponevano nuove sfide ogni giorno e che misure mediche per batterlo non ve n’erano. Funzionava soltanto la prevenzione e quel bel tatuaggio rassicurante in grado di garantire chi avesse volontariamente seguito le indicazioni rispetto a quelli che non lo avevano invece fatto. Nessuno ebbe paura quando il primo ministro pronunciò la parola «pericolo» perché quell’uomo elegante e sorridente, affabile e famigliare, emise il suono bene, prendendo calmo il fiato quasi a prepararsi, morbidamente, sempre con il sorriso intramontabile e l’occhio docile, non avendo alcuna intenzione di allarmare o di incutere paura. Perché il pericolo, lo sanno tutti, è tale solo se non c’è nessuno a difenderci e invece a quel punto i cittadini di quel Paese lontano ebbero la certezza: seppero che lo Stato a metterci lo scudo c’era. Il primo ministro lo disse chiaramente.
«La medicina», cominciò pacato, «sa bene come diverse sostanze in natura siano tossiche in certa dose, ma toccasana in altre. La libertà, questa meraviglia della natura, non fa eccezione. È stupenda, non potremmo farne a meno e però tutti sappiamo quanto e come venga spessissimo usata male». Sibilò le «s» più a lungo del normale.
«La libertà di uccidere il prossimo», riprese, «di rubargli in casa, di fargli del male, per esempio. Esempi che conoscete bene tutti, purtroppo. La libertà resta stellare, ma va vegliata, e instradata e talora persino frenata perché non ruzzoli travolgendo. Frenata sì, ma solo per goderne meglio. Ma, vi chiederete ora, chi può farlo? Chi ne ha l’autorità, prima che il potere? Ebbene, cari concittadini, qualcuno che lo possa fare senza né sbavature né corto circuiti c’è. Siete voi». Quasi scandì le lettere.
«Per la sicurezza vostra», riprese controllato. «La sicurezza è infatti un bene comune tanto grande quanto lo è la libertà. Forse addirittura, talora, superiore. Quando difende dalle esagerazioni lo è di certo, dalle esagerazioni della libertà per esempio. Ecco, dunque. Un poco, davvero poco meno libertà in cambio di molta, ma molta più sicurezza. Cittadini, questa è la politica che il mio governo ha deciso di seguire e il bel tatuaggio sul braccio ci aiuterà. No, vi aiuterà a vivere sicuri, godendo della vostra libertà dentro il recinto della sicurezza per tutti. Io sono certo che capiate. Che le persone intelligenti capiscano. Le altre? Non hanno il marchio sul braccio…. E mi raccomando: non c’è obbligo. Alcuno. Chi vuole può liberamente cedere un poco della propria libertà in cambio di molta più sicurezza, onde godere appieno la libertà restante. Un piccolo, piccolissimo sacrificio, come già ne fate tanti, per esempio lavorando tre quarti dell’anno per lo Stato che poi socializza i vostri sforzi in sicurezza comune, ma con una ricompensa enorme».
L’inventore fece una faccia più stranita che strana. Poi alzò le spalle, e si arrese. «Tanto è tutto volontario», commentò fra sé.
Presto furono stabilite postazioni di stampigliatura sulle braccia ai crocicchi delle vie. Vennero poi impiantate telecamere agli angoli, nei bar e nei ristoranti, nelle stazioni e nelle scuole, negli edifici pubblici e in quelli privati che acconsentivano. Per prelevare al bancomat occorreva la scansione della retina e la lettura del tatuaggio sul braccio. Per effettuare pagamenti lo stesso e per ricevere denaro anche. C’erano app per i telefoni e prestò si cominciò a schedare il DNA dei cittadini, accumulando dati a migliaia utili a capire, vedere, prevedere, seguire. Occorreva arginare il morbo, debellare il male, garantire sicurezza alla gente. «Tanto è tutto volontario», commentò ancora una volta l’inventore di Richmond.
Aderirono volontariamente in molti. Sì, la sicurezza è un gran bene e davvero costa solo un piccolo sforzo ogni tanto, giorno dopo giorno.
All’inizio qualcuno fu perplesso, ma il tempo lenì la ferita. In fin dei conti non era male. Si smetteva di preoccuparsi troppo, ci si affidava, lo Stato procurava lasciapassare, controlli, medicine per l’ansia e sgomberava pure la testa da molti pensieri, preoccupazioni, angosce. Sì, insomma: era bello farsi trasportare, cullare, badare. Tanto ognuno sapeva che avrebbe potuto eventualmente smettere e tirarsi indietro, ma pure nessuno desiderava farlo davvero. Era una situazione nuova e rassicurante, dolce, persino bella. Un grande meccanismo in cui tutti erano interconnessi agli altri e su tutti vegliava paternale e provvida la mano di quello Stato che stava facendo tutto per la loro sicurezza. Alla fine nessuno più si sentiva fuori posto, ognuno di posto aveva il proprio e tutto funzionava alla perfezione. Soprattutto tutti erano liberamente sicuri e sicuramente liberi dentro quel perimetro di certezza che lo Stato garantiva a tutti. Davvero una bella soluzione.
Solo pochi scalpitavano. Tra i più restii c’erano dei giovani. Perché mai sottoporsi a quel controllo? Non ne volevano sapere. Gridavano forte «libertà» e pensavano che essa andasse goduta tutta o niente, e che sconticini non se ne fanno mai ad alcuno.
Il più animato di tutti era un giovane sui vent’anni, alto, bello, aitante. Era diventato una sorta di capopopolo, guidava la renitenza pacifica di chi non voleva affatto il tatuaggio del governo sul braccio. «Bel tipo», pensò l’inventore, con un filo persino di ammirazione.
Era venerdì. L’inventore si prese una bella pausa nel fine settimana per riordinare gli appunti e cercare di trarne qualche ammaestramento. Venne lunedì. Aveva dormito più del solito, avendo fatto le ore piccole elucubrando e fu svegliato da un forte vociare in strada. «Ancora proteste», pensò. Si levò lesto, si vestì in fretta, prese di corsa una tazza di caffè nero e si sporse, sorseggiando, dalla finestra. Non era affatto una protesta. Era gioia. «Il contagio è finito», disse. Poi scorse quel capopopolo ventenne parlare concitato, ma felice con altri. Anzi, sembrava ancora una volta lui l’anima di tutto. Era stato lanciato sul mercato il Peach XYZ, il nuovo telefono da tasca. Un vero portento.
Il sorriso del giovane si spense quando gli altoparlanti diffusero la notizia che il nuovo Peach XYZ era in vendita alla metà del prezzo imposto soltanto a chi potesse mostrare quel tatuaggio garante di sicurezza che si poteva ottenere facilmente e del tutto volontariamente. Non lo aveva deciso lo Stato, ma la Peach stessa per garantirsi una fetta di mercato importante e al contempo fare il bene comune.
Fu così che quel lunedì il giovane guardò gli altri, guardò il Peach XYZ in vetrina, guardò il proprio avambraccio sinistro e decise. Corse all’angolo e aveva deciso: si fece stampare il segno. Cosa era, in fin dei conti, un piccolo segno sulla pelle in confronto di quella cosa grande? Con il nuovo Peach avrebbe del resto potuto parlare male liberamente delle limitazioni alla libertà. Volontariamente. In totale sicurezza. Passò ancora qualche settimana e fu un tripudio inaspettato di fuochi di artificio. L’inventore di Richmond seppe di essere giunto finalmente al termine di quel suo viaggio strano. Il governo, illuminato, forte e mamma, annunciò con soddisfazione che il morbo che aveva così a lungo funestato quel Paese era stato alla fine debellato. Eureka. Si chiamava Libertà.
Questo racconto di fantasia è liberamente tratto da una storia rigorosamente vera
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