Last updated on marzo 30th, 2020 at 06:03 am
Eravamo quasi certi che nel campo dell’istruzione i casi fossero due: da un lato le scuole d’élite, pubbliche e allo stesso tempo libere, dove si affrontano rette alte e spese consistenti, dall’altro le scuole statali, teoricamente gratuite, dove si concentra chi non può permettersi di pagare profumatamente.
Poi, all’improvviso, nell’Istituto Comprensivo Via Trionfale di Roma avevano osato dire le cose come stanno: uno dei quattro plessi scolastici è frequentato da ragazzi e da ragazze appartenenti a famiglie borghesi e benestanti, e a un altro s’iscrivono i figli delle loro collaboratrici familiari. Quando un quotidiano ha rivelato che la preside, sul sito Internet che gestisce, era incorsa in una involontaria gaffe nel tentativo di descrivere la realtà dell’istituzione da lei diretta, è iniziato un dibattito su scala nazionale, come se si trattasse di liberarsi dell’odioso residuo di un presunto sistema di apartheid.
L’idea marxista di una società senza classi è in conflitto con la separazione fra le classi (nel senso di aule) e gli sforzi compiuti negli ultimi decenni per imporre l’egalitarismo sembrano non aver ottenuto risultati. In aggiunta, quel muro di separazione sembra essere stato eretto proprio all’interno del sistema educativo statale, a dimostrazione di un fallimento delle istituzioni.
Chiudono le scuole cattoliche
Si teme infatti che sia stato disapplicato l’art. 3 della Costituzione italiana, secondo il quale «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali» ed «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e la uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Beh, una soluzione al problema sarebbe già stata trovata, se lo Stato non ne avesse impedito lo sviluppo e non proseguisse la battaglia per ridurre la presenza delle scuole pubbliche non statali in Italia, che hanno così finito per essere relegate a elemento estraneo del corpo sociale, di fronte al quale sono scattate le difese burocratico-immunitarie per neutralizzarlo ed espellerlo.
Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti: sempre più istituti paritari sono costretti a chiudere i battenti, tanto che, ha osservato il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza Episcopale Italiana e arcivescovo di Perugia-Città della Pieve «negli ultimi dieci anni, sono scomparse circa 1.000 scuole cattoliche (su un totale di quasi 9.000) e si sono persi più di 160.000 alunni».
L’identificazione delle iniziative educative della Chiesa Cattolica con il totale delle istituzioni cosiddette «private» ‒ in realtà pubbliche non statali ‒ nello stesso settore non descriverebbe adeguatamente il panorama, certamente diverso dal punto di vista qualitativo nel Settentrione rispetto al Mezzogiorno, anche se in Italia esse rappresentano un importante termometro di una crisi e delle residue speranze di una ripartizione più equa fra i diversi ceti, che non coincide con la cancellazione delle differenze. Quel che importa è che difficilmente l’impiego del denaro pubblico – proveniente dall’imposizione fiscale – garantisce l’efficienza dei servizi e tanto meno l’offerta di pari opportunità. Sul tema, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico ha recentemente creato un parametro, il No-Diversity Index, per misurare la “segregazione sociale” all’interno delle singole scuole e nei sistemi scolastici nazionali e lo utilizza come innovativo criterio di analisi dei propri studi.
“Segregazione”
Ne emerge, nota Tommaso Agasisti, professore ordinario di Public Management nel Politecnico di Milano, una disparità più accentuata fra gli studenti “socioeconomicamente avvantaggiati” e quelli “svantaggiati”, che si manifesta prevalentemente all’interno del sistema pubblico statale e che «la quasi totalità della segmentazione socioeconomica tra scuole è, nel nostro Paese, associata alle differenze sistematiche tra scuole statali». Tanto che «quello delle scuole private come generatore di ineguaglianza è un problema che non esiste, in Italia». Insomma, «almeno nel nostro Paese, la storia secondo cui le scuole private sarebbero solo appannaggio dei “figli dei ricchi” e le scuole statali sarebbero frequentate in modo diversificato da tutte le fasce della popolazione non è corroborata, in alcun modo, dai dati».
Dunque, «non c’è nessun fenomeno particolarmente problematico di differenze tra scuole statali e private in termini di diversità delle popolazioni studentesche che le frequentano», e sebbene le scuole private siano tra loro segmentate (in scuole per studenti più abbienti e meno abbienti), «tale segmentazione è marcata anche nelle scuole statali, che anzi sono responsabili del grado complessivo di “segregazione” tra scuole nel nostro sistema scolastico». Basterebbe insomma lasciare campo libero all’iniziativa privata per ottenere risultati in termini di integrazione e abbattere i muri. Senza contare i vantaggi economici dello smantellamento delle costosissime strutture della pubblica istruzione.
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