La recessione della libertà di espressione

L’espressione liberale del pensiero viene sempre più conculcata. Un’analisi del fenomeno a livello globale

Libertà di espressione

La Costituzione italiana, proclamata dal presidente Enrico De Nicola (1877-1959) il 27 dicembre 1947 ed entrata in vigore dal 1° gennaio successivo, dichiara, all’articolo 21: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione».

Il medesimo concetto riecheggia nell’articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti umani, approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre sempre del 1948, dove si legge: «Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere».

Sulla libertà di parola e di espressione, dalla Grecia antica a oggi, ha scritto un libro intero, fra gli altri, Jacob Mchangama, autore, fondatore e direttore di «Justitia», un think tank con sede a Copenaghen che si occupa di diritti umani, libertà di parola e Stato di diritto. Il volume si intitola Free Speech: A History From Socrates to Social Media ed è uscito pochi giorni fa, pubblicato per i tipi della casa editrice statunitense Basic Books.

Il periodico Foreign Affairs ne ha tratto The War on Free Speech. Censorship’s Global Rise, un saggio interessante sullo stato della libertà di parola oggi nel mondo.

È però una libertà di parola monca e muta, quella di cui parla Mchangama, nonostante, grazie al «lavoro di pionieri che sono stati diffamati e perseguitati per idee che molti dei loro contemporanei consideravano radicali e pericolose», nel mondo attuale «le persone nelle democrazie sviluppate danno per scontato che la libertà di parola sia un diritto fondamentale», anche grazie all’aiuto che deriva «da progressi nella tecnologia delle comunicazioni inimmaginabili al principio dell’età moderna».

«Oggi», afferma l’autore, «stiamo assistendo all’alba di una recessione della libertà di parola».

In base a quanto riportato dall’istituto di ricerca «Varieties of Democracy» (V-Dem), nel 2020 si è assistito a «[…] cali sostanziali del rispetto della libertà di espressione in 32 Paesi; nell’anno precedente la censura si è intensificata in 37. Questi sviluppi hanno avuto conseguenze terribili per i media e per i giornalisti». Il Comitato per la protezione dei giornalisti (CPJ), infatti, «[…] ha documentato l’incarcerazione di 1.010 singoli giornalisti tra il 2011 e il 2020, un allarmante aumento del 78% rispetto al decennio precedente». 

Mchangama si riferisce per esempio al caso dell’India, dove il governo sfrutta il retaggio delle leggi coloniali contro la «sedizione» emanate dall’impero britannico per «[…] mettere a tacere attivisti ambientali, politici, giornalisti, accademici e minoranze».

Ancora peggiore la situazione a Hong Kong, «[…] dove il Partito Comunista Cinese ha completato una sorprendente trasformazione della città da quando ha represso le proteste a favore della democrazia nel 2019», prosegue l’autore. «Quella che era stata una piccola oasi di libertà di espressione, con una vivace società civile e una stampa critica, è ora un deserto arido in cui attivisti per la democrazia, accademici e media indipendenti sono puniti con leggi draconiane contro ciò che il PCC considera terrorismo, secessione o sedizione».

Per non parlare della Cina continentale, dove la libertà di parola e finanche di pensiero è un sogno e un’utopia, sfregiata dall’artiglio del dragone Xi Jinping e schiacciata dal peso della sua zampata, come quotidianamente si impegna a registrare il portale d’informazione Bitter Winter: A Magazine on Religious Liberty and Human Rights.

Preoccupa però anche la deriva presa dall’Europa, sottolinea Mchangama, dove la libertà di parola viene conculcata in maniera strisciante e per questo non meno pericolosa: «negli ultimi anni», scrive, «sia la Commissione Europea che i governi di Austria, Danimarca, Francia e Regno Unito hanno perseguito quella che il politologo tedesco Karl Loewenstein [1891-1973] ha definito “democrazia militante”: l’idea che le democrazie debbano negare le libertà democratiche fondamentali a coloro che rifiutano valori democratici fondamentali».

In Francia, per esempio, il governo transalpino «ha adottato una legge che vieta la “manipolazione delle informazioni” online durante le elezioni. […] Emmanuel Macron ha anche emesso decreti che vietano l’organizzazione anti-immigrati di destra Génération Identitaire (citando presunti discorsi di odio) e il gruppo antidiscriminazione Collettivo contro l’islamofobia in Francia (citando quella che era considerata la difesa del gruppo del terrorismo e dell’antisemitismo). Anche criticare lo stesso Macron è rischioso di questi tempi». 

Non diverso il caso della Germania e dei Paesi scandinavi. «iFamNews» si è occupato sin dall’inizio del caso di Päivi Räsänen, ex ministro finlandese, tuttora a processo, accusata di incitamento all’odio. «La sua ”colpa”? Aver pubblicato nel 2004 un libro intitolato Mieheksi ja naiseksi hän heidät loi, ovvero il versetto 27 del primo capitolo della Genesi, “Maschio e femmina li creò”».

Si respira la stessa aria negli Stati Uniti d’America, dove, «nonostante il principio del liberalismo americano secondo cui la libertà di parola è necessaria per proteggere le minoranze storicamente perseguitate contro le esplosioni di intolleranza maggioritaria, questo ideale civile libertario non persuade più una nuova generazione di progressisti che vogliono eliminare una collezione sempre più ampia di idee e opinioni che considerano razziste e sessiste , o anti-LGBT+ da università, media e istituzioni culturali». 

È l’onda devastatrice della cancel culture, che abbatte le statue del «maschio bianco colonizzatore prevaricatore» e ancor peggio fa alle persone in carne e ossa, se «la Foundation for Individual Rights in Education ha documentato più di 500 tentativi tra il 2015 e il 2021 di sanzionare professionalmente gli studiosi per essersi impegnati in forme di discorso costituzionalmente protette. Oltre i due terzi degli studiosi presi di mira per discorsi che coinvolgono razza o genere hanno dovuto affrontare indagini, sospensione, censura, retrocessione o licenziamento».

E l’Italia? La vicenda complessa del «ddl Zan», bavaglio illiberale piegato al volere della propaganda LGBT+, che voleva zittire le voci che si permettono di affermare la realtà e di cui «iFamNews» si è lungamente occupato, non fa che confermare la sensazione che la libertà di parola versi in condizioni delicate. Né appunto la pratica è archiviata, giacché il Partito Democratico l’ha appena riesumata.

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