Last updated on Luglio 30th, 2020 at 03:59 am
Durante la fase più critica dell’epidemia di coronavirus uno dei risvolti più drammatici è stato lo sdoganamento dell’aborto domestico, con la promozione diffusissima delle famose “pillole abortive” previo semplice consulto telefonico, se non addirittura online. In particolare, secondo l’International Federation for Human Rights, era necessario che i Paesi con le legislazioni più “retrograde” si sbrigassero a «riformulare urgentemente queste leggi che mettono a rischio la salute e la vita delle donne […] conformemente agli obblighi in materia di diritti umani e alle raccomandazioni degli esperti medici».
Come “iFamNews” ha già avuto modo di denunciare, senza bisogno di alcuna modifica legislativa, l’aborto “fai-da-te” ha iniziato a correre velocemente sul web, addirittura con siti specializzati capaci di far recapitare – dietro più che simbolica “offerta” – le pillole abortive in qualsiasi regione del mondo, con tanto di consigli per evitare di essere scoperte in caso di “complicazioni”.
E le complicazioni ci sono, spesso pure molto gravi. Fa testo quanto sta accadendo per esempio ora in Malesia, dove è stata segnalata la morte di almeno cinque donne in seguito all’utilizzo di pillole abortive acquistate online.
Ma quel che è ancora più grave è l’utilizzo strumentale di queste situazioni drammatiche, laddove si afferma che «l’uso senza supervisione delle pillole abortive può causare complicazioni come rottura della parete uterina, sanguinamento anomalo e infezioni fetali», al fine di promuovere la legalizzazione di tali pratiche che sarebbero invece «sicure se prese sotto controllo medico».
Come in Malesia, anche in Indonesia e in Thailandia l’aborto è consentito solo in caso di pericolo di vita per la madre, mentre stati come le Filippine e il Laos non prevedono alcuna eccezione al divieto di abortire. E anche qui, come già altrove, la necessità di combattere gli «aborti non sicuri» viene propagandata come motivazione principale onde forzare la mano alla modifica della legislazione. Eppure è ampiamente dimostrato come la legalizzazione delle procedure abortive – chirurgiche o farmacologiche che siano – non sia assolutamente utile per arginare il numero di interruzioni di gravidanza, come mostra il caso dell’Irlanda.
Donne in difficoltà sempre più sole
Da una parte, dunque, si spinge affinché l’aborto sia sempre più un fatto privato, liberamente accessibile a tutte le donne con pochi clic e, al massimo, una telefonata. Dall’altra il riconoscimento, solo laddove funzionale, del fatto che l’aborto farmacologico sia effettivamente pericoloso, oltre che fortemente traumatico per la donna, sola a gestire il dolore fisico e psicologico. Di fatto anche nel Regno Unito è stato bloccato il tentativo di rendere permanenti le norme eccezionali sull’aborto domestico, dove i controlli avvengono solo per telefono o per via telematica.
In Italia ha recentemente fatto grande scalpore la decisione della Regione Umbria di abolire il day-hospital per l’aborto farmacologico: nonostante l’evidenza della possibilità di effetti collaterali, anche gravi, la spinta verso l’utilizzo delle «possibilità di monitoraggio da remoto attraverso dispositivi di telemedicina» promossa dallo stesso ministro della Salute, Roberto Speranza, ha un solo effetto indubitabile, in ogni luogo del mondo: donne in difficoltà sempre più sole.
Enfatizzando l’influenza di «stigmi religiosi, culturali e sociali contro l’aborto» si omette dunque una verità tanto evidente quanto occultata a fini utilitaristici: l’aborto è un dramma, sempre, e la misura della civiltà di una società andrebbe calcolata non in base al numero degli aborti “legalmente” portati a termine – laddove l’aborto resta la prima causa di morte sul pianeta –, quanto piuttosto alla capacità di sostenere una donna che si trovi in difficoltà di fronte ad una gravidanza, pure se inaspettata o gravata da complicazioni. Una società in cui la fragilità non venisse allontanata, eliminata dalla vista come fastidiosa e scomoda, ma riconosciuta per quel che è, ovvero maestra di vita buona, sarebbe in grado di accogliere ogni vita come «degna di essere vissuta».
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