Last updated on aprile 14th, 2020 at 10:09 am
Il Karesansui è un giardino giapponese zen e il più famoso è quello di Ryoan-ji a Kyoto. La sua particolarità risiede nel fatto che, chiunque si sieda nella veranda prospiciente il giardino, non possa mai osservare contemporaneamente le 15 pietre che si ergono al suo interno.
Così come chi ammira il Karesansui di Kyoto da solo non raggiunge una percezione piena dell’insieme, così è l’uomo di fronte al giardino della vita e delle cose. Un giardino che prima o poi obnubila la vista, passando dal mondo della luce a quello delle ombre.
Sin dall’antichità questo cambiamento di stato ha provocato le reazioni più disparate sia nell’uomo sia negli animali. Si riportano casi in cui elefanti coprano i cadaveri dei propri simili o di specie diverse, uomo compreso, con frasche e con arbusti per celarlo alla vista, assembramenti di primati che contemplino il proprio defunto simile, mammiferi marini come orche e tursiopi che mostrino un qualche senso del “lutto”.
Ciò detto, l’uomo, ovviamente, è tutt’altro genere. Le testimonianze di una sorta di cura e di rispetto davanti all’evento-morte risalgono al Paleolitico, dove si predispongono angoli o veri e propri tumuli per commemorare chi è obnubilato alla vista e ai sensi.
La struttura cultuale che si sviluppa intorno alla morte attraverso le culture testimonia lo scarto tra utilitarismo e astrazione, un tentativo, cioè, di armonizzazione in una visione più ampia di quella strettamente funzionale e materiale. Nessun vantaggio propedeutico alla vita deriva infatti dalla contemplazione concettuale della morte. Elaborare il lutto, nelle svariate compagini semantiche attribuite a esso nel mondo in tutte loro diverse forme possibili, trasla il livello di esistenza da mero meccanismo a protagonista principale nel processo biologico della vita. Il riguardo verso persone che non ci sono più, il provare dolore pensando alla loro assenza, l’incensarne il ricordo attraverso riti o strutture di commemorazione dona una prospettiva che va oltre l’esistenza sensoriale: rende distintamente umani.
L’uomo che gioca
In paleoantropologia, la sigla «KNM-ER 1808» identifica un reperto umano antichissimo (classificato come Homo erectus di 1,7 milioni di anni fa) di genere femminile, la cui deformazione ossea presuppone l’affezione a ipervitaminosi A. Questa malattia invalidò quella donna, impedendole la deambulazione almeno per gli ultimi mesi di vita. La sua sopravvivenza manifesta un’altra grande caratteristica umana: la solidarietà. Per sopravvivere in quelle condizioni così a lungo, come i resti fossili testimoniano, quella donna dovette essere assistita. Il mutuo soccorso è un’altra caratteristica che investe l’uomo di una dignità che va oltre al valore biologico attribuito alla mera funzionalità.
Esiste un’altra pietra miliare, un’altra caratteristica spirituale che eleva l’uomo al di là della materia: «L’uomo è completamente uomo solo quando gioca», dice il poeta, storico e filosofo tedesco Friedrich von Schiller (1759-1805).
L’attività ludica è un’attività pura, non è inficiata da nessun altro scopo razionale e la ragione non è sacrificata a nessun altro scopo emotivo: sensibilità, astrazione, sostanza, introspezione e estrinsecazione incontrano la sublimazione in un’espressione di bellezza eterna. Nel gioco risuonano armonicamente le componenti fondamentali dell’uomo per cui «l’uomo è completamente tale solo quando gioca».
Per lo storico e linguista neerlandese Johan Huizinga (1872-1945) il gioco è il propulsore per ogni attività umana, un interlocutore culturale e un mediatore spirituale che parla all’anima di ogni persona, poiché sta al di là di una mera funzione biologica. L’uomo quando gioca si abbandona in una dimensione di mezzo dove il sussistenziale, l’economico e l’utilitarismo non esistono e lasciano l’anima libera di calcare i promontori dello spirito, auscultandone i suoni, respirandone gli effluvi e percependone l’essenza.
Morte, solidarietà e gioco si riscontrano insieme anche in alcune celebrazioni culturali quali per esempio il celebre Día de los muertos (o Día de muertos) in Messico, di per sé di origine precolombiana, e sovrappostosi poi alla celebrazione cristiana dei defunti.
Oggi si rischia di guardare al passato in modo meccanico e asettico, come un archeologo a metà che contempli solo la materialità di un manufatto ancestrale, smarrendone l’anima. Ma l’uomo è uomo solo in virtù di ciò che è stato. Lo sguardo umano dovrebbe immergersi verso i tempi che furono per comprenderne le meccaniche, per conoscersi meglio e dunque proiettarsi in una destinazione futura che passa inevitabilmente attraverso questi due punti dell’esistenza.
Sollevarsi da tutti gli abissi
Con una mentalità rivolta solo al materialismo e all’importanza del momento, i camion straripanti di bare che vediamo percorre le strade delle nostre città nell’era del coronavirus possono essere destabilizzanti. Si può avere l’impressione di mera merce dismessa e non più utile. E la speranza nulla per il domani spoglia di tutto ciò che rende uomini. Sarebbe onorevole quindi gettare uno sguardo sul giardino della vita spostando la prospettiva, senza ancorarla a quella posizione fissa che impedisce di osservare tutte le 15 pietre del nostro Karesansui. Tra queste vi sono sicuramente scogli di bellezza rara, esempi di solidarietà, rispetto ossequioso della morte e gioco che solleva l’animo affranto nelle difficoltà. Lo scrittore russo Aleksandr I. Solženicyn (1918-2008) osserva: «La linea di quei pochi che sanno scegliere sacrificando se stessi è la luce che illumina il nostro futuro. Impressiona sempre questa peculiarità psicologica dell’essere umano: nel benessere e nella spensieratezza, ha paura anche delle più piccole contrarietà che toccano la periferia della propria esistenza, fa di tutto per non conoscere le sofferenze altrui e le proprie future, rinnega molte cose, perfino ciò che è importante, spirituale, essenziale pur di conservare il proprio benessere. Giunto invece alle ultime rive della miseria dove l’uomo è nudo e privo di tutto quello che sembra rendere bella la vita, ecco che trova improvvisamente in se stesso la risolutezza per fermarsi all’ultimo passo e sacrificare la vita purché siano salvi i principi. Per la prima peculiarità l’umanità non ha saputo mantenere nessuna vetta conquistata, per la seconda si è sollevata da tutti gli abissi».