Last updated on marzo 3rd, 2020 at 09:55 am
“Le famiglie non fanno più figli”, si dice, aggiungendo subito “per colpa della crisi economica”, motivo per cui “la soluzione sta nell’adozione di politiche assistenziali”. Ma è davvero così? Che la crisi in corso non aiuti a mettere su famiglia è un dato di fatto; che la famiglia non sia tra le priorità, per così dire, dei governi italiani degli ultimi decenni, altrettanto. Eppure, se si studiano i dati, si nota come il crollo demografico nel nostro Paese incominci ben quarant’anni orsono, all’inizio degli anni 1980, per effetto della rivoluzione culturale del Sessantotto che ha sferrato colpi mortali alla famiglia: dall’introduzione del divorzio nel 1970 alla riforma del diritto di famiglia nel 1975 che colpisce la figura del padre, dall’introduzione dei mezzi contraccettivi alle derive femministe, dalla legge sull’aborto nel 1978 al relativismo morale generalizzato, dalla diffusione delle droghe alla crescente perdita di fiducia nel futuro. A partire dagli anni 1970 la società italiana si è cioè sempre più sfilacciata, divenendo progressivamente “liquida” e atomizzata: una “società” di persone sempre più sole, sempre più anziane, sempre più indebitate, sempre più sfiduciate.
I numeri non sono certo tutto, ma aiutano a inquadrare la problematica: il tasso di natalità (ovvero il numero di nati ogni 1000 abitanti) passa dal 16,8 del 1971 all’11,1 nel 1981 per scendere ancora a ridosso del 9,5 nel ventennio 1991-2011 e precipitare nel 2019 al 7,3. La grande crisi economico-finanziaria mondiale iniziata negli anni 2007-2008 ha certamente contribuito negativamente, ma la tendenza italiana al ribasso è in essere da oltre 40 anni. Nel 1964, all’apice della natalità, nel nostro Paese nacquero 1 milione e 35mila bimbi. Nel 2019 l’Italia è crollata a 435mila, con un saldo naturale “nati” meno “morti” pari a -212mila unità. Con soli 1,29 figli per donna, lo Stivale è ben al di sotto del “tasso di sostituzione”, quello che serve per mantenere stabile una popolazione, tasso che è pari a 2,1. L’Italia detiene insomma il triste record negativo della natalità in Europa e il ricambio naturale della popolazione appare sempre più compromesso. L’aborto di Stato, che dal 1978 ha mietuto oltre 6 milioni di vittime, e le derive eutanasiche degli ultimissimi anni, configurano dunque un vero e proprio suicidio demografico.
Aumentano i pensionati, aumentano i costi
Per di più il crollo delle nascite si è accompagnato a un innalzamento costante della speranza di vita, andando a sbilanciare ancor di più la struttura demografica e trasformando la “piramide demografica” naturale in una sorta di “fungo”. L’età media è salita a 45,7 anni: l’“indice di vecchiaia”, che misura il rapporto tra gli ultrasessantacinquenni e il numero dei giovani fino ai 14 anni, nel 1981 era 61,7 e nel 2019 è balzato a 173,1 anziani ogni 100 giovani. La popolazione italiana, dicono gli statistici demografici, è regressiva, sta implodendo: si chiudono asili e scuole, si aprono case di riposo.
In aggiunta, negli ultimi lustri, i più anziani della generazione dei baby boomer (i nati nel periodo 1945-64) hanno cominciato ad andare in pensione, contribuendo anche all’aumento delle esigenze e dei costi dell’assistenza sanitaria. Contemporaneamente la contrazione demografica progressiva ha fatto assottigliare sempre più la componente giovanile della cosiddetta “P.e.l.”, la “Popolazione in età lavorativa”, vale a dire le persone di età compresa fra i 15 e i 64 anni. Conseguenza: sempre meno persone lavorano e sempre più sono le persone in pensione, e queste presentano esigenze crescenti di assistenza sanitaria. Uno squilibrio evidente.
I crescenti costi pensionistici e sanitari, nonostante il calo quali-quantitativo delle prestazioni fornite, vengono così a gravare su una base produttiva in contrazione, richiedendo prelievi fiscali e oneri contributivi e previdenziali sempre più gravosi. Il risultato finale è quello di minare la competitività del sistema economico-finanziario, mettendo in dubbio la tenuta del sistema di Welfare State e del sistema pensionistico, così come li conosciamo. Si produce anche il paradosso che, a causa della grande contrazione economica indotta dal crollo della produttività, i giovani, pur essendo pochi, faticano a trovare un lavoro in linea con la propria formazione: il precariato aumenta, e anche questo non va certamente a favore della natalità e della famiglia.
Serve un “anti-Sessantotto”
Al quadro demografico sfavorevole c’è da aggiungere una caratteristica che, negli ultimi decenni, accomuna l’evoluzione sociale di tutti i Paesi avanzati: tutti, senza eccezioni, hanno supportato la crescita indebitandosi sempre più, non solo per finanziare gli investimenti, ma anche – in Italia soprattutto – per coprire la spesa corrente, cioè per alimentare i consumi artificialmente. Un modo, cioè, per vivere al di sopra dei propri mezzi, rinviando alle generazioni future il problema. Un escamotage che ha funzionato finché la tendenza demografica favorevole sosteneva questa crescita economica aiutata.
Ma, con l’involuzione demografica registrata negli ultimi decenni, il paradigma della “crescita a debito”, già squilibrato di per sé, è andato in crisi ovunque nel mondo. Se le cause della crisi in atto sono “reali”, non saranno certamente le politiche monetarie ultra-espansive delle Banche centrali o i green new deal dei governi a invertire tendenza.
Anche se la crisi economico-finanziaria non aiuta certamente a metter su famiglia, la denatalità non è però una conseguenza della crisi stessa, bensì una tra le sue cause remote e strutturali più importanti. Causa, questa, che continuerà a pesare nei decenni a venire, vista la persistenza delle tendenze demografiche. Le proiezioni dell’ISTAT per il 2050 ipotizzano infatti una diminuzione della popolazione italiana, in assenza di flussi migratori netti, dell’ordine di 2,2 milioni di persone, con ulteriore incremento degli anziani e contrazione delle persone in età lavorativa.
Insomma, l’Italia è giunta al redde rationem. Per invertire la tendenza non servono, quindi, politiche assistenzialistiche estemporanee, ma occorre rimettere la famiglia al centro, riconoscendola come soggetto fondante della vita culturale, economica, sociale e politica del Paese. Politiche strutturali pro family, seppur necessarie e urgenti, non sono comunque sufficienti. Occorre anzitutto andare alla radice delle cause profonde del declino in atto, che sono di tipo antropologico e morale. Occorre, insomma, una “contro-rivoluzione culturale”, un “anti-Sessantotto” per così dire, che inverta le tendenze mortifere sul piano culturale, legislativo, sociale, politico ed economico dell’ultimo mezzo secolo.
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