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Io pago l’aborto

E pure tu. Con le tasse. Un servizio alla morte garantito dal SSN

Marco Respinti di Marco Respinti
31/05/2021
in Editoriali, Vita
423
Reading Time: 5 mins read
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Valigetta colma di soldi

Image by Marko Milivojevic from Pixnio

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Last updated on Giugno 30th, 2021 at 04:05 am

Il rapporto I costi di applicazione della legge 194/78 in Italia, il primo in 40 anni di aborto italiano, presentato lunedì scorso, è una risorsa importante. Per fare il verso a un libro famoso (clamoroso quando uscì nei primi anni 1970, in sé avendo infranto un tabù importante, quindi per la via che ha idealmente aperto a imprescindibili studi ulteriori), all’agghiacciante costo umano dell’aborto italiano (6 milioni di vittime in quattro decenni) aggiunge anche l’attenzione all’esorbitante costo economico della soppressione della vita umana innocente.

Non ci sarebbe nemmeno bisogno di puntualizzarlo, ma parlare del costo economico dell’aborto non significa in alcun modo relativizzare il costo umano dell’aborto. Anzi, l’attenzione al costo economico dell’aborto rafforza la percezione della straordinaria insopportabilità del costo umano dell’aborto, persino con una venatura di pedagogia. Il fatto che per sopprimere 6 milioni di vite umane innocenti prima ancora che nascano una legge dello Stato abbia imposto alle proprie casse 120 milioni di euro l’anno, dunque 5 miliardi in 40 anni, che oggi verrebbero la bellezza di 11 miliardi e 209 milioni, grida vendetta. Ricorda il neo-post-nazional-comunismo cinese, dove il costo della pallottola adoperata per eliminare i nemici politici viene addebitato alla famiglia della vittima.

Una seconda considerazione concerne quel tesoro di 11 e passa miliardi di valuta comunitaria europea: quanto bene materiale ci si sarebbe potuto fare proprio a vantaggio delle madri e delle famiglie in difficoltà, che esistono, anche se non è vero, come vorrebbe una certa retorica maliziosa, che la povertà sia una delle cause dell’aborto?

Tasse e schiavitù

La questione costo economico dell’aborto possiede poi un altro aspetto. Lo Stato e i suoi cittadini. I 5 miliardi impiegati in 40 anni per alimentare il lager, il Gulag, la foiba che ha mietuto 6 milioni di italiani innocenti, 5 miliardi di euro che oggi avrebbero potuti rivalutarsi in ben più del doppio, sono costi che si sobbarca il Servizio sanitario nazionale (SSN). Lo stesso SNN che talvolta lamenta mancanza di fondi per cause assai, e facilmente, più nobili di aiuto alla salute e alla vita dei cittadini italiani. Lo stesso che spesso sale all’onore (onere?) delle cronache per disservizi al cittadino. Lo stesso che noi cittadini italiani paghiamo anche se e quando non ne usufruiamo. Ora, quel servizio non genera reddito per virtù propria: vive delle tasse dei cittadini italiani. Le mie e di chi ora mi sta leggendo, e pure di chi non sa nemmeno che esisto. Tasse, non imposte. Somme di denaro versate allo Stato, e/o a chi ufficialmente per esso, in cambio di un servizio specifico, quello appunto portato alla salute, dunque alla vita. A meno di non intendere che esista un servizio alla morte garantito dalla Sanità statale (cosa che forse si potrebbe anche in linea di principio ipotizzare, visto che la Legge 194/78, quella dell’aborto, è una legge dello Stato i cui costi sono appunto a carico del SSN).

Ebbene i cittadini italiani che pagano le tasse per ottenere un servizio sono i veri finanziatori della soppressione dei 6 milioni di nostri connazionali che non hanno nemmeno potuto vedere la luce in 40 anni. Quando di dice che l’aborto è un costo per le casse dello Stato pari a 5 miliardi che in quattro decenni sarebbero potuti diventare ben più del doppio, si dice che siamo noi italiani, ognuno di noi, ad avere sostenuto e a sostenere quell’immane esborso per finanziare una carneficina. Paghiamo pure l’aborto per chi evade le tasse nella misura in cui una parte delle tasse di ogni cittadino che le paga va parzialmente a coprire l’ammanco causato da chi non le paga.

Dentro al cubo

Evidenziare il costo economico dell’aborto per sottolineare il costo umano dell’aborto non è economicismo: è mettere il dito su una piaga enorme, una tragedia nella tragedia. Se dal costo umano dell’aborto un non-abortista può infatti in ipotesi sfilarsi non partecipando all’atto, dal costo economico dell’aborto non può. Paga e tace. Mugugna e silenzio. Suddito, altro che cittadino. Ma è ipotesi accademica che dal costo umano dell’aborto un non-abortista possa sfilarsi non partecipando all’atto. Pagando il costo economico dell’aborto, e non potendo non farlo, anche il non-abortista partecipa al costo umano dell’aborto. Una tempesta perfetta, una trappola senza uscita, l’angoscia asfittica e paranoica e disperante di The Cube.

Ecco: ragionare del costo economico dell’aborto significa sentire affondare nelle proprie carni l’insopportabile costo umano dell’aborto, che dunque non ne viene affatto minimizzato, bensì potenziato. E socializzato davvero. Ho scritto «proprie carni», e la cosa è letterale. Il costo economico dell’aborto fa sì che tutti ne siano coinvolti senza via di scampo: anche chi non abortisce, anche chi l’aborto lo combatte ne è responsabile, lo alimenta, lo paga, lo aiuta, disfa, come Penelope, la notte quel che di giorno fa, ne è complice. Una nuova forma di schiavitù che non conosce alcun William Wilberforce (1759-1833).

Come non lacerarsi le carni con le unghie per lo sdegno e per il dolore?

Efficientismo?

Poi c’è lo Stato. Non bisogna esser dei fan accaniti delle storture e delle illibertà dello Stato moderno (ancorché sia pleonastico il dirlo, giacché lo Stato è moderno per definizione: facciamo allora che valga da rafforzativo, icastico e sferzante) per dire che un ordinamento giuridico che consenta e saluti con favore la soppressione della vita dei propri cittadini, addebitandone il costo a tutti indistintamente, anche a chi di quella performance del SSN non si avvale, anche a chi quella pratica la combatte, è di una immoralità straordinaria.

Se l’aborto è immorale e sbagliato, che cos’è uno Stato che se ne fregi? Se allo Stato riconosciamo valore – per esempio la funzione della tutela della collettività e la cooperazione al bene comune (per esempio nei panni da terna arbitrale più il quarto uomo e il VAR) –, come si può ritenere che l’aborto di Stato sia meglio dell’aborto privato? Come si fa a dormire sonni sereni da cittadini di uno Stato che consente la soppressione della vita umana innocente dei propri cittadini? Come si può, cioè, giudicare meglio che sia lo Stato a fornire l’aborto rispetto al privato? Se focalizzarsi sul costo economico dell’aborto per sottolineare il costo umano dell’aborto non è affatto economicismo, è possibile preferire che sia uno Stato a performare l’aborto, invece che un soggetto privato, perché più efficiente?

Quanto ai costi dell’aborto chimico, che si presumerebbero inferiori a quelli dell’aborto chirurgico, e quindi preferibili per ragioni di sostenibilità e spending review, vale la risposta che il professor Benedetto Rocchi, economista, ci concede nell’intervista chiarificatrice che pubblichiamo oggi.

Resta sul tavolo un solo fatto. Il costo insostenibile della morte per aborto, una voce di budget raccapricciante del mondo-cubo illuminato ed evoluto in cui siamo ingabbiati.

Tags: AbortoVetrina
Marco Respinti

Marco Respinti

Marco Respinti è stato il direttore di International Family News fino alla fine del 2022.Italiano, è giornalista professionista, membro dell’International Federation of Journalists (IFJ), saggista, traduttore e conferenziere. Ha collaborato e collabora con diversi quotidiani e periodici, sia in versione cartacea sia online, in Italia e all’estero. Autore di libri, ha tradotto e/o curato opere di, fra gli altri, Edmund Burke, Charles Dickens, T.S. Eliot, Russell Kirk, J.R.R. Tolkien, Régine Pernoud e Gustave Thibon. Senior Fellow al Russell Kirk Center for Cultural Renewal (Mecosta, Michigan), è anche socio fondatore e membro del Consiglio Direttivo del Center for European Renewal (L’Aia, Paesi Bassi). Membro del Comitato editoriale del periodico The European Conservative e del Consiglio Consultivo della European Federation for Freedom of Belief, è direttore responsabile del periodico accademico The Journal of CESNUR e, sul web, di Bitter Winter: A Magazine on Religious Liberty and Human Rights.

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