Last updated on Gennaio 13th, 2021 at 05:54 pm
Prima del loro storico incontro sul ring, nel 1971, Muhammad Ali (1942-2016) disse del rivale Joe Frazier (1944-2011): «[…] è così brutto che quando piange le lacrime girano intorno alla sua testa e cadono già dietro le spalle. È così brutto che dovrebbe regalare la sua faccia al WWF americano».
Non solo il web, ma gli scaffali delle biblioteche sono colmi di insulti celebri. Mark Twain (1835-1910) fece della rotonda apologia di reato quando, in una lettera del 13 settembre 1898 a Joseph Hopkins Twichell (1838-1918), scrittore e pastore dell’Asylum Hill Congregationalist Church di Hartford, nel Connecticut, apostrofò Jane Austen (1775-1817) così: «Tutte le volte che leggo Orgoglio e pregiudizio mi viene voglia di dissotterrarla e colpirla con la sua stessa tibia».
Nel 2020 lucrerebbero ricchi indennizzi in tribunale le parole che il conte di Kent riserva al servo Oswald nell’Atto 2, Scena 2 del Re Lear di William Shakespeare (1564-1616), dove la perla conclusiva della collana è un «figlio ed erede di una cagna bastarda» (il termine inglese lì usato equivale però a uno dei modi che l’italiano usa per il femminile del maiale non certo quando desidera complimentarsi con una rappresentante del gentil sesso). E se nell’Atto 3, Scena 2 de La commedia degli errori il bardo di Stratford-upon-Avon mette in bocca a Dromio di Siracusa una descrizione di Nell, la sguattera al servizio di Adriana, moglie di Dromio di Efeso, che scatenerebbe cortei femministi nelle piazze, il celebre «vile meccanico» del futuro fra’ Cristoforo de I promessi Sposi di Alessandro Manzoni (1785-1873) oggi farebbe entrare in sciopero la FIOM.
Il mondo in cui viviamo è invece il puritanesimo del lerciume. Si può fare, basta non dire. Si può ammazzare, stuprare, violentare i bambini, dire che due persone dello stesso sesso figliano o che la sorella del mio vicino è un uomo a patto di cambiare nome alle cose, denunciando tutti coloro che, biechi reazionari, si attardano ancora a chiamare la realtà con il nome che ha. Il nostro tempo in cui la parola più abusata è «libertà», seconda solo a «diritto», ognuno può fare quel che vuole tranne quel che non vogliono loro. Loro chi? Tutti coloro che hanno, in qualche modo, il potere d’imporre la propria violenza agli altri.
L’assolutismo relativistico che ci avvelena, altro che il CoViD-19, si offende se le cose vengono chiamate con il proprio nome. E per dichiararsi offeso il relativismo assolutistico offende. Perché però non dovrei offendermi io quando mi chiamano «omofobo», «maschilista» o «fascista»? Rivendico dunque la medesima libertà di espressione che rotea come un taser chi, impunemente solo perché arruffianatosi al potere, mi definisce impunemente «omofobo», «maschilista» o «fascista» solo perché non temo il nome che le cose hanno. Bene inteso: chi lo fa, può farlo, ma perché non posso farlo anch’io? Se tutto è permesso, voglio infatti permettermi.
Ebbene, oggi la giustizia del Paese che ha dato origine al parlamentarismo, e quindi alla democrazia moderna, mi dà pienamente ragione. Esiste persino la libertà di insultare, altrimenti che libertà sarebbe? In effetti, come diceva il grande Edmund Burke (1729-1797), per poter essere goduta la libertà è facoltà che deve predicarsi di un oggetto concreto. Non è infatti una ubbia teorica di marca illuminista da impugnare come un randello per intentare processi alle intenzioni.
E la libertà dell’insulto finisce con l’onere della prova. Se tal «meccanico» dileggiato da un Lodovico manzoniano non fosse sul serio «vile», scatterebbe il processo per diffamazione a far da scudo alla verità; ma se la verità giudiziaria e storica fosse invece che la signora che uno Shakespeare paragona a un sozzo quadrupede non fosse davvero specchiato esempio di virtù muliebri e sponsali, allora sarebbe pusillanime invocare lo scudo, o il caso, umano. Insultatemi, vi insulterò.
Occhio, però, perché solo uno dei nostri insulti reciproci è vero.