Indigesta Marina Terragni su «Avvenire»

Una femminista storica che parla come il maestro contro-rivoluzionario Plinio Corrêa de Oliveira

Diavolo

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Last updated on Giugno 1st, 2021 at 04:58 am

Nurse o Big Jim: con seni per allattare bimbi o piatti all’inguine come il famoso bambolotto di plastica, dipende dall’intervento. Sono i nuovi maschi descritti da Marina Terragni su Avvenire. Indigeribile la femminista storica che scrive sul quotidiano dei vescovi italiani. Indigeribile per la dabbenaggine corrente, per l’appiattimento contemporaneo, per chi ha paura di riconoscere la natura e di stigmatizzare ciò che è innaturale, di dire pane e vino, di usare le categorie morali di bene e di male, di giusto e di ingiusto. Indigeribile per il mondo in cui stiamo, ma da ritagliare e usare come segnalino nel libro di cui parlo oltre.

È la lucidità, prima ancora del coraggio, che avvince e convince: «L’orizzonte transumano», scrive la Terragni, «sembra orientare sempre di più la proposta progressista: il vuoto del fine-guerra fredda si è progressivamente colmato di un dirittismo individualistico ossessivo». Esuberante nei neologismi, strabordante nelle conclusioni, uno stream of consciousness nella descrizione: brava. È così che si deve fare per far udire le campane ai sordi.

«Modello di ogni libertà», appunta, «diventa potersi resettare in radice, nel corpo, manipolando e riconfigurando i propri caratteri sessuali primari e secondari o avventurandosi in percorsi di ibridazione almeno simbolica con le altre specie, e perfino con il non-vivente». Il «Grande Reset».

E poi il fulcro: «Il transumanesimo si presenta come una cosa nuova: non lo è affatto. Appare come futuro ma è solo l’ultima – forse l’estrema – figura fenomenologica e glitterata di un passato brutale e arcaico. L’uomo che allatta è la perfetta rappresentazione di quel moto invidioso delle origini che ha dato vita all’oppressione patriarcale. La negazione della realtà del corpo – questa volta in direzione di un impalpabile percepito, l’“identità di genere” – è una mossa antica e reiterata nei millenni. È rinascere dalla testa maschile purificati dalla materia femminile. La stessa storia di sempre».

Leggetela tutta, la Terragni, su Avvenire, ritagliatela come segnalibro, cucitevela nella fodera della livrea come Blaise Pascal (1623-1662): se trascrivo oltre poi giustamente mi diffidano per violazione del copyright. Non c’è bisogno di concordare con tutti i dettagli, è il disegno intelligente che conta. Io, intanto, vi racconto una storia, vi parlo del libro cui ho fatto cenno.

Correva il 1959 e in Brasile, che non è solo ballerine discinte e cocktail multicolori sulla baia, un periodico, dal titolo inequivocabile, Catolicismo, pubblicava un saggio dal titolo secco e inappellabile, Revolução e Contra-Revolução. Lo firmava il pensatore e uomo d’azione Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), che su quella base l’anno dopo fondò la Società brasiliana per la difesa della tradizione, famiglia e proprietà (TFP), madre e maestra di tante organizzazioni figlie e sorelle negli anni a venire, nel mondo.

Nel 1964 di Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, per tutti semplicemente «RCR», uscì la prima traduzione italiana, per le edizioni torinesi «dell’Albero», condotta e curata da Giovanni Cantoni (1938-2020), che su di essa avrebbe poi fondato Alleanza Cattolica, associazione dedita allo studio e alla diffusione della dottrina sociale cattolica. «RCR» venne riedito nel 1972 dalle Edizioni di Cristianità, omonime del periodico ufficiale di AC che sarebbe stato lanciato un anno dopo. Difficile dire cosa sia «RCR», perché «RCR» è sempre stato e resta, un “libro da fare” più che “da leggere”, mai né un “libro delle soluzioni” né il sollazzo dell’“uomo da un libro solo”, bensì un sestante, un perno e un giunto cardanico, talvolta un metronomo oppure un orologio, talaltra la forcella del rabdomante oppure il diapason, insomma una guida.

In soldoni epitomizza, ma pure razionalizza la tradizione della scuola di pensiero cattolica contro-rivoluzionaria fondata su, intrisa di e abbracciata/abbarbicata alla filosofia perenne naturale e (dunque) cattolica e sul Magistero, ma pure quella tradizione la rende adulta: non più solo una naturale anzi (giocoforza) ovvia reazione alle volte e alle giravolte e al maramao della Rivoluzione, ma un pensiero “dell’origine” costante, coerente, appunto e scolastico e magistrale a propria volta. Prima di proporre l’antidoto della Contro-Rivoluzione, «RCR» affresca la Rivoluzione. Lo fa per tappe. Tre, un numero/descrizione che è un indice sommo, tante quante hanno (macroscopicamente) spaccato l’omogeneità variegata della civiltà cattolica occidentale preesistente, esportando poi i propri mali e contagiando: il protestantesimo, la Rivoluzione Francese (1789-1799) e il comunismo (1917).

Quando si trattò di pubblicare la terza edizione di «RCR», Cantoni chiese però all’autore un passo oltre. De Oliveira scrisse allora la quarta parte della descrizione rivoluzionaria incentrata sulla “rivoluzione senza nome”, detta appunto «Quarta Rivoluzione». Era difficile capire allora quale nome dare a essa e fu scelta la via negativa: dire ciò che non è, scegliere di sussurrare, prediligere il suggerimento. «Quarta Rivoluzione» con il suo proprium: la sovversione in interiore homine. Come aveva annunciato lo scrittore grossetano Luciano Bianciardi (1922-1971) ne La vita agra (1962): «La rivoluzione deve cominciare da ben più lontano, deve cominciare in interiore homine».

Lo svellere la natura umana come fase suprema e iconica della Rivoluzione, il suo brand totale. Finale? Chi può dirlo. Certamente ultima, nel senso biblico. Dopo avere spogliato l’uomo di ogni abito, cioè di ogni sua difesa sociale, politica ed economica, l’attacco diretto a un essere oramai nudo: la manipolazione nichilista della natura umana a fare eco all’insegnamento spirituale di sant’Ignazio di Loyola (1491-1556) – la vocazione ignaziana di TFP e AC è sempre stata scoperta, soprattutto nella proposta sistematica degli Esercizi spirituali –, il quale definisce il demonio come colui che «[…] non c’è al mondo una bestia così feroce come il nemico della natura umana nel perseguire con tanta malizia il suo dannato disegno».

La nuova e ultima (in ogni senso) parte sulla «Quarta Rivoluzione» uscì per la prima volta nella terza edizione italiana di «RCR» del 1977 e solo dopo altrove in altre lingue. Oggi di «RCR» esiste una edizione suprema, parte sostanziale del testamento di Cantoni, quella del cinquantenario ricca di una messe di materiali a corredo difficilmente sottovalutabile (e poi preziosi appunti pro manuscripto cantoniani).

Qual è il punto? Il punto è che nel 1977, anno di piombo, in piena terza Rivoluzione comunista pur in fase di trasbordo, solo il profetismo di De Oliveira e di Cantoni potevano immaginare quell’abisso che oggi per noi è pane rancido quotidiano e che allora pareva fantascienza.

È «transumanesimo» il nome della «Quarta Rivoluzione»? Chi lo sa. Ma ha ragione la femminista Marina Terragni che parla come il contro-rivoluzionario de Oliveira: è in giro non da oggi, ha seminato, ha lavorato, ha scavato, ha divorato, è penetrata e ora sta perfezionando la diabolica distruzione della natura umana.

In finis. La chiusa della Terragni su Avvenire ci aiuta però a sbattere tutti un colpo d’ala alla De Oliveira e Cantoni. «Ma il transumanesimo non è affatto un destino ineluttabile», scrive. «L’alternativa è lì dove è sempre stata, se la si fosse voluta vedere. È ricominciare dal punto in cui si è generato l’errore capitale: l’aver fatto della donna l’Altro, l’eccentrico e l’abietto, per fare largo a un unico Soggetto sessuato al maschile. L’alternativa è ripartire da quella relazione materna, aggredita ovunque, che oggi costituisce l’estremo punto di resistenza. Se il soggetto del transumanesimo è l’individuo assoluto irto di diritti, quello del neoumanesimo è più donna che uomo. Meglio: è l’inscindibile due rappresentato dalla relazione materna, l’atomo non divisibile di una nuova possibile civiltà umana a radice femminile». Una madre, la Madre. 👏👏👏

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