Il «Grande balzo in avanti», imposto alla Cina da Mao Zedong (1893-1976) negli anni 1958-1961, finalizzato a trasformare con la forza un Paese basato sull’economia agricola e su una società rurale in una grande potenza economica industrializzata, si è rivelato un fallimento enorme e ha provocato una carestia devastante. Per questo milioni di persone sono morte di fame, letteralmente.
La «Rivoluzione culturale», imposta dall’uomo che si faceva chiamare «il grande timoniere», ha mietuto a suon di massacri nel decennio che va dal 1966 al 1976, anno della sua morte, altri milioni di vittime.
Altre, tantissime, sono invece da attribuire a una politica demografica addirittura criminale, iniziata nel 1979 da Deng Xiaoping (1904-1997), successore di Mao alla guida del Partito Comunista Cinese e del Paese intero.
«iFamNews» si è occupato in numerose occasioni dell’inverno demografico cinese, dandone numeri e ragioni e tracciandone la storia.
Vi è stata una prima fase, in cui «per decenni al PCC ha fatto comodo massacrare i bambini cinesi ancora nel ventre delle proprie madri e per questo ha imposto la politica del “figlio unico” che dal 1979 al 2015 ha immaginato di riparare ai guai economici prodotti dalla lucida follia ideocratica maoista provocando una ecatombe e impedendo la nascita di milioni e milioni di cittadini».
Successivamente «[…] al PCC ha fatto comodo poter disporre di qualche cittadino in più e così nel 2015 ha permesso alle famiglie non uno bensì due figli, consegnando i terzi, i quarti e così via alla medesima sorte».
I cittadini cinesi, però, non bastavano ancora e nel maggio 2021 «[…] ha così aperto al terzo figlio, mentre noi ci chiedevamo che fine facessero i quarti, i quinti, e così via».
A settembre, infine, «[…] il regime neo-post-nazional-comunista cinese ha varato un pacchetto di misure atte a migliorare la “salute riproduttiva delle donne” e fra queste è compresa la drastica riduzione degli aborti per “scopi non medici”».
I tentativi tardivi dello Stato di arginare l’emorragia della popolazione determinata dalla crisi demografica non sono però serviti e come riporta il quotidiano britannico The Guardian nel 2021 «[…] il tasso di crescita della popolazione cinese è sceso al livello più basso degli ultimi sei decenni, superando a malapena i decessi nel 2021». Infatti, prosegue l’articolista, «[…] nel 2021 sono nati 10,62 milioni di bambini, un tasso di 7,52 per mille persone, [come] ha affermato […] l’ufficio nazionale di statistica. Nello stesso periodo si sono registrati 10,14 milioni di decessi, un tasso di mortalità del 7,18 per mille, producendo un tasso di crescita demografica di appena lo 0,34 per mille abitanti».
Il tasso di crescita è il più basso dal 1960, mentre la popolazione invecchia a un ritmo vorticoso e in un solo anno la percentuale di ultrasessantenni in Cina è salita dal 18,7% del 2020 al 18,9% alla fine del 2021. Il tasso di natalità è al minimo dal 1949.
Oltre ad aver implementato la «politica dei tre figli», infilandosi una volta di più nelle scelte che dovrebbero invece essere private dei propri cittadini, Pechino tenta di arginare il disastro, quanto meno il disastro economico, anche attraverso politiche più favorevoli all’accesso ai servizi per l’infanzia e l’innalzamento dell’età pensionabile.
Ma sembra troppo tardi. Se la pandemia in corso e la crisi economica e sociale che ne consegue svolgono un ruolo importante in questa crisi demografica devastante, però, non si può ignorare anche un ultimo aspetto che riguarda le grandi città moderne e la loro upper class (o aspirante tale): le mentalità è cambiata. Così come in Occidente, ora che si è stabilito come affermava Deng Xiaoping che «arricchirsi è glorioso» la generazione che oggi dovrebbe preoccuparsi di quella futura è invece occupata in tutt’altro.
È così che il drago rosso cinese non partorisce più figli.
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