Last updated on aprile 6th, 2021 at 05:30 am
Si può vivere in 17 metri quadrati? Secondo gli architetti di Ikea le abitazioni di dimensioni ridottissime non solo sono praticabili, ma, in un futuro non lontano, diventeranno la normalità. Case in formato roulotte, trasportabili, due camere, un bagno e una cucina, funzionali per lo smart working, dotate di mobilio – inutile dirlo – dai materiali ecologici. I progetti per le nuove tiny house sono stati accolti con grande entusiasmo dalla stampa mainstream mondiale, anche italiana.
Il «Tiny Home Project» risponderebbe, insomma, alle presunte esigenze delle nuove generazioni: mobilità, precarietà, flessibilità, disponibilità a cambiare frequentemente lavoro, luogo e città. I prezzi? Assolutamente convenienti: poco più di 40mila euro, che salgono a circa 53mila nella versione accessoriata di mobili Ikea. Le tiny house sono uno dei tanti regali della pandemia: la fuga dal caos metropolitano, dagli assembramenti e dai potenziali focolai infettivi, favorirebbe l’utilizzo di abitazioni mobili armonizzabili anche ad un ambiente rurale o addirittura selvatico. In perfetto stile «Green New Deal» ecosostenibile.
I nuovi hippy
Qualcuno si domanderà: e i vecchi immobili? Che fine faranno le abitazioni tradizionali ormai vetuste, ingombranti e inquinanti? In alcuni Paesi, il co-housing è già una realtà. In particolare in Gran Bretagna stanno prendendo piede nuove forme di coabitazione, denominate «intentional community», sorta di evoluzione delle comuni hippy di cinquant’anni orsono. Luoghi, cioè, in cui gruppi più o meno numerosi di persone non imparentate scelgono di convivere, condividendo non solo l’abitazione, ma anche valori comuni. Modelli di questo tipo si stanno affermando soprattutto tra persone single dal reddito medio-basso, quindi fortemente penalizzate dal costo proibitivo degli affitti.
La novità non è sfuggita al World Economic Forum (WEF). Poco più di due anni fa, in tempi non sospetti, l’organizzazione di Davos già tesseva le lodi del co-housing: «La natura collettiva delle comunità intenzionali spesso permette che, quando un gruppo condivide le proprie risorse, i membri possono aumentare significativamente il loro potere d’acquisto», si legge sul sito del WEF. Oltre al potenziale ecosostenibile più che prevedibile, il co-housing avrebbe infatti anche il pregio di ridurre il senso di solitudine dei suoi fruitori. Tutti aspetti, questi, presi seriamente in considerazione dal WEF, che proclama entusiasta: «Se stai valutando l’idea di uno stile di vita alternativo, non sei solo: anzi, ti troverai sicuramente in buona compagnia».
Neo-comunismo
Risalendo nel tempo di altri due anni, in una sorta di pubblicità-progresso, il WEF avanzava una visione futuristica e tipica del pauperismo che per Davos è diventato un chiodo fisso: «Non sarai proprietario di nulla e sarai felice». Seguivano altre “profezie”, tutte pedissequamente in linea con i dettami dell’ideologia globalista: il tramonto degli Stati Uniti d’America come potenza egemone, il governo mondiale, la carbon tax, le emigrazioni causate dai cambiamenti climatici, l’accoglienza dei rifugiati come necessità ineludibile, il sempre minor consumo di carne, l’uso dei droni per recapitare oggetti e la fine dell’era del trapianto di organi naturali in favore di quelli artificiali. Fino al massimo dell’utopia (ma non ridete): lo sbarco su Marte e la scoperta di forme di vita aliena. Tutti auspici incredibilmente in linea con l’utopia del «Grande Reset».
Ikea e World Economic Forum come due facce della stessa medaglia, insomma, sostanzialmente davanti a due sole alternative: o una casa di proprietà, ma minuscola e mobile, o un’abitazione fissa, di grandi dimensioni e in condivisione. O l’isolamento individualistico o il ritorno del comunismo. In entrambi i casi con una grande assente: la famiglia. Gli scenari futuribili di Davos sono infatti compatibili soltanto con una presenza umana demograficamente ridotta. Generare bambini, si sa, inquina. Meglio pochi abitanti solidali e “in condivisione”.
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