Last updated on Maggio 28th, 2020 at 12:25 pm
Uno studio condotto dall’Università Harvard ha scoperto che la frequenza constante alle funzioni religiose riduce drasticamente i cosiddetti «decessi per disperazione», come il suicidio o le morti provocate dall’abuso di droghe e di alcol. Una scoperta importante soprattutto oggi, nel contesto critico generato dalla pandemia di CoViD-19, che provoca perdite di posti di lavoro e che getta sul futuro di molte persone un’incertezza drammatica.
Lo studio prende in esame un campione vasto del settore sanitario negli Stati Uniti d’America, oltre 100mila professionisti, in un arco temporale consistente, dal 1999 al 2016. I ricercatori hanno preso le mosse dalla constatazione che l’indebolimento delle tradizionali strutture sostegno sociale, ovvero il matrimonio e la famiglia, generi in molte persone un senso crescente di disperazione che a propria volta conduce a un aumento dei casi di disperazione che si concludono con la morte del soggetto.
Dato che uno degli indicatori principali dell’indebolimento delle citate strutture di sostegno è il declino della frequenza religiosa, gli studiosi hanno indagato la possibilità di un legame tra i due dati, disperazione e riduzione della pratica religiosa attiva, scoprendo che gli infermieri e i medici che hanno preso parte a una funzione religiosa almeno una volta alla settimana hanno rivelato probabilità minori di decesso per suicidio o per abuso di droghe e alcol rispetto a coetanei che hanno invece abbandonato la pratica religiosa.
L’incidenza di «decessi per disperazione» tra gli operatori sanitari è più del doppio di quella registrata nella popolazione in generale, e questo a causa di stress e di traumi, ma tra chi pratica ancora attivamente la religione partecipando alle funzioni almeno settimanalmente le morti diminuiscono del 68% tra le donne e del 33% tra gli uomini. Poiché il livello di istruzione degli operatori sanitari è superiore alla media, in loro la disperazione è associata più a fattori come la perdita del senso della vita piuttosto che a privazioni di tipo materiale. Ora, spesso la religione favorisce un senso di pace e una visione positiva della vita, promuove la condivisione sociale, e incoraggia la socializzazione e l’impegno in attività di tipo comunitario come per esempio il volontariato. Così, scrivono i ricercatori di Harvard, «in pendenza di un trauma, queste opportunità sono in grado di fornire “strategie sane” per fronteggiare lo stress e ridare senso in momenti difficili, contrastando i processi associati alla disperazione».
Una conferma della ricerca di Harvard viene dall’Irlanda, dove la psichiatra irlandese Patricia Rosarie Casey, docente nello University College di Dublino, ha realizzato per l’Iona Institute di Dublino un’indagine, The psycho-social benefits of religious practise, «I benefici psico-sociali della pratica religiosa», che, sulla base di un gran numero di articoli scientifici, dimostra come la pratica religiosa riduca il rischio di depressione, suicidio, rottura coniugale, abuso di alcol e di droghe, gravidanze adolescenziali, tanto quanto, sull’altro fronte, la pratica religiosa aiuti pure ad affrontare il lutto. Il culto è, per i credenti, una fonte di consolazione e di speranza, una forza e una motivazione. Una chiesa è anche il luogo in cui si possono sperimentare il sostegno di una comunità e dove le persone vengono incoraggiate a impegnarsi in attività utili a se stessi e agli altri. Limitare la libertà di culto, dunque, e prevedere misure eccessivamente burocratiche per la partecipazione dei fedeli alle cerimonie religiose non è solo una violazione palese dei diritti umani delle persone, ma favorisce la disperazione e le sue conseguenze mortali.