Sarebbero 3 milioni, in India, le persone che appartengono alla comunità transgender, chiamate hijras in lingua hindi, e si definiscono una minoranza sessuale oppressa. Nel 2014, in realtà, la Corte Suprema indiana ha affermato per la prima volta l’esistenza di un «terzo genere», con una sentenza che mirava a dare a queste persone uno status legale, protezione da eventuali discriminazioni, scuole dedicate, posti di lavoro e visibilità politica.
Le richieste della comunità LGBT+
Oggi le persone transgender nel Paese asiatico lamentano la difficoltà di accedere alle terapie ormonali sostitutive e agli interventi chirurgici necessari alla «transizione». Gli ospedali pubblici gestiti dallo Stato non sarebbero collaborativi e quelli privati, di contro, hanno richieste economiche eccessivamente elevate. L’intervento chirurgico di «riassegnazione del sesso» può costare fino a 7mila e 500 euro, a seconda della parte del Paese in cui viene eseguito; alcuni ospedali eseguono la procedura a un prezzo inferiore ma nelle grandi città, come Mumbai e Delhi, essa è più costosa.
Le risposte del governo
Il Transgender Persons (Protection of Rights) Act, del 2019, in verità, stabilisce che «[…] il governo ha il mandato di fornire strutture sanitarie alle persone transgender, inclusi centri separati di sorveglianza dell’HIV e interventi chirurgici per l’affermazione del genere. L’atto afferma inoltre che il governo deve fornire terapia ormonale e consulenza, sia prima sia dopo l’intervento chirurgico». All’inizio di quest’anno, poi, «[…] il governo ha esteso i benefici del programma di assicurazione sanitaria di punta, denominato “Ayushman Bharat”, alle persone transgender, nell’ambito di un nuovo schema che include il supporto per la terapia di affermazione di genere».
Pare che ciò non sia ancora sufficiente, però, e alcune persone transgender lamentano che si tratti di un processo macchinoso, poiché comporta la registrazione a un portale per ricevere un «certificato transgender», riconosciuto a livello nazionale, e un documento d’identità che consenta l’accesso agli interventi chirurgici.
Una spesa sanitaria all’osso, che non tutela bambini e neomamme
A fronte di tali interventi, economicamente gravosi per lo Stato, occorre ricordare che già in epoca pre-CoViD-19 l’intero sistema sanitario indiano era al collasso, la spesa sanitaria pubblica era ferma dall’anno 2009 e quella media annuale pro-capite corrispondeva «al costo di una pizza», circa 16 dollari statunitensi. Nel biennio di maggior crisi pandemica l’India ha assistito a un’interruzione quasi totale dell’assistenza sanitaria ordinaria, come lamentato dalle principali associazioni umanitarie, con migliaia di bambini piccoli, donne incinte e neomamme fortemente a rischio. Ancora oggi, la popolazione cresce a ritmi vertiginosi e già l’anno prossimo si prevede che il Paese sarà il più popoloso al mondo, davanti anche alla Cina. Pare evidente che la ripartizione della spesa sanitaria debba essere la più oculata possibile, a beneficio soprattutto della salute dei più piccoli.