Fermiamoci un attimo a riflettere sulla porta che involontariamente Elena ha aperto lasciando volontariamente la vita. Prima però si dovrà sgomberare il campo del lessico: lasciare volontariamente la vita è suicidio, parola che evidentemente non piace ma che viene, per similitudine, da omicidio, ovvero homo + cidium (da caedo), cioè «far cadere un essere umano»: significa quindi “far cadere se stessi da se stessi, noi stessi da noi stessi”. Insomma, se commettiamo suicidio significa dire che ci “omicidiamo”.
Ora la 69enne Elena, pochissimi anni in più di chi qui scrive, ritenendo insopportabile il vivere alle condizioni da lei già sperimentate e dalla medicina rappresentate, ha deciso di “omicidiarsi” e ha trovato il modo per farlo in modo tanto elegante quanto dispendioso. Nell’Ottocento, e ancora prima, quando le condizioni di vita erano insopportabili (quelle ovviamente di salute, non certo quelle del cuore e degli affetti della narrativa), o si contava su un amico “pietoso” che ne procurava i mezzi, dalle armi ai veleni, oppure si provvedeva da sé.
Passi enormi sono stati fatti nella conoscenza scientifica, ma ancora non si è riusciti a togliere da sé, nel profondo del cervello che ci accompagna da tempi primordiali, l’idea che l’inutilità dell’esistenza sia tutta nel non essere più socialmente utili, quindi di essere fuori dal gruppo sociale. Restare soli con la propria sofferenza è proprio degli eremiti, degli asceti e dei santi di ogni religione; per gli altri, la società procura strumenti allo scopo, aggiornandoli.
Oggi Elena, così normale e così semplice, ha aperto la strada al suicidio “civile”, nuova categoria morale affacciatasi prepotentemente al balcone della nostra società.
Non una scelta, dopo anni di sofferenza e di rancori verso una scienza che non sa trovare rimedio al dolore causato da malattie devastanti, bensì il non affrontare il percorso, il fermarsi a metà per svoltare sul sentiero corto che porta alla soluzione che mette fine all’esistenza che il soggetto stesso considera inutile portare avanti.
Sta qui la crudezza e il realismo dell’aggettivo “civile” in questo ambito, perché il salto è stato fatto. I mezzi ci sono e non sono brutali, e la volontà soggettiva si sente così padrona della vita da superare il consenso sociale che, bene o male, aveva accompagnato i suicidi del passato o che, quanto meno, ne aveva trovato e sopportato una giustificazione.
Qui non c’è da interrogarsi se l’atto di Elena sia da giustificarsi o da sopportarsi, perché Elena non ha chiesto il consenso alla società. Elena ha semplicemente agito nella solitudine dell’homo unicum che accompagna il secolo XXI. E ha spalancato il baratro. Perché adesso Elena avrà tanti emulatori in tutti coloro che troveranno una regola sociale nell’insopportabilità del vivere, la regola sociale non detta e non ancora scritta che dice «Se ti è insostenibile vivere, allora vattene! Pagati il biglietto di uscita e non ci seccare più». Così facendo Elena ci ha resi non dissimili dagli Spartani che abbiamo imparato a esecrare perché eliminavano i nati malformi e i vecchi inutili.
Saranno tanti gli emuli di Elena perché chi mai oserà contrastare la scelta di “omicidiarsi” se i mezzi, ormai, sono liberati dall’aspetto turpe e censorio che finora li aveva accompagnati?, se la morte diventa per certi versi “bella”?, e se il morire stesso diventa “bello” non della bellezza della letteratura noir bensì di quel “bello” del comunicare un fatto senza viverlo?
Elena affida se stessa a un videomessaggio che vedono tutti, perché così ha pensato e così ha voluto. Nascondendoci le emozioni vere e non viste, l’homo unicum nega a se stesso il dolore e ne priva la conoscenza agli altri.
Vedremo, temo, moltiplicarsi i videomessaggi dei prossimi “omicidianti”, vivremo in diretta ciò che non possiamo vivere con le emozioni personali, piangeremo forse come davanti a un film che ci commuove e avremo chiamato tutto questo “suicidio civile”.
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