Last updated on marzo 29th, 2021 at 05:41 am
Con l’espressione «caregiver familiare» si intende qualunque persona si occupi in modo continuativo di conviventi portatori di disabilità gravi e quindi non autosufficienti. Nella grande maggioranza dei casi si tratta di genitori o di fratelli, in alcuni casi però anche di coniugi o di figli. Da alcuni anni il gruppo «Caregiver Familiari Comma 255» ne coordina un gran numero.
«Non siamo infermieri o assistenti per un certo numero di ore al giorno» spiega ad “iFamNews” Mariella Tarquini, uno dei coordinatori nazionali del gruppo e madre di Raffaele, 8 anni, disabile. «Siamo quelli che, durante il lockdown, abbandonati da tutti, ci siamo improvvisati terapisti perché il terapista ci era negato o, nel migliore dei casi, poteva aiutarci solo stando dall’altra parte di uno schermo. Alcuni hanno dovuto provvedere anche alla fisioterapia o alla logopedia online, tutte funzioni per le quali nessuno di noi ha formazione specifica. Ci è insomma richiesto di reperire quotidianamente risorse umane e tecniche che prima non immaginavamo di avere».
Una denuncia importante, quella della Tarquini, che prosegue: «Noi caregiver familiari siamo complici delle vite dei nostri congiunti portatori di disabilità, siamo interpreti dei loro bisogni, progettiamo ogni aspetto della loro quotidianità, eppure nessuno comprende che la nostra persona coincide con la disabilità dei nostri congiunti. E così le istituzioni non ci sostengono, dando il nostro impegno per scontato».
Oggi è unanime il dissenso dei caregiver per buona parte di quanto prevede il «ddl 1461» Disposizioni per il riconoscimento ed il sostegno del caregiver familiare pendente al Senato. In realtà in Italia la figura del caregiver è riconosciuta dal comma 255 (da cui il nome al gruppo) dell’articolo 1 della legge 205/2017 e il «ddl 1461» (denominato «ddl Nocerino» dal nome della senatrice Nunzia Nocerino, sua prima firmataria) cerca solo di attuarne praticamente le norme, eppure, «siamo sobbalzati quando abbiamo appreso che il “ddl Nocerino” ci riconoscerebbe tre anni di contributi figurativi assimilandoci ai collaboratori domestici. L’assurdo è che si prevede addirittura che i nostri congiunti debbano formalmente esprimere la propria volontà nell’accettarci come caregiver».
Altro elemento “demoralizzante”: ogni caregiver dovrebbe dichiarare all’INPS per quante ore si prende cura dei propri figli o congiunti. «Questo impegno non può essere misurato a ore», glossa la Tarquini: «sono un genitore, non un assistente! Il nostro sacrificio implica l’esistenza intera, la rinuncia totale a sé. Ma il Parlamento sta invece facendo di noi una nuova categoria di cittadini assoggettati al sistema dei servizi, contribuendo e determinando il nostro abbandono».
Altro fronte di battaglia è quello scolastico. In attuazione del decreto legislativo 66/2017, il ministero dell’Istruzione ha adottato i nuovi Piani Educativi Individualizzati (PEI). Incaricati di delineare tali piani sono i Gruppi di Lavoro Operativi (GLO), di cui sono membri anche le famiglie.
Il primo impatto per i caregiver era stato favorevole. I ragazzi non sono più affidati in via esclusiva all’insegnante di sostegno e viene sancita la corresponsabilità del corpo docente. Il GLO, tuttavia, non figura come organo collegiale e le decisioni non vengono assunte a maggioranza. «Allora ci chiediamo: in caso di oggettive ragioni che impediscano la partecipazione della famiglia le decisioni sono comunque assunte validamente?», commenta la Tarquini.
C’è un altro elemento che ha colpito negativamente i caregiver. Nel decreto scolastico di inizio anno può eventualmente essere ammesso a partecipare al GLO un unico terapista privato indicato dalla famiglia, solo in funzione consultiva e a titolo gratuito.
«Il terapista privato», osserva la Tarquini. «è qualcuno che conosce molto bene i nostri figli. Il fatto che questa figura sia ammessa in modo discrezionale dal dirigente e a titolo gratuito, a noi fa paura».
Ultimo, il debito di funzionamento, ovvero il criterio di assegnazione delle misure di sostegno, in luogo della condizione di gravità certificata. In concreto significa che l’assegnazione delle ore di sostegno non viene fatta in considerazione della gravità dell’alunno, ma è effettuata a fine anno, in base alle abilità e alle competenze acquisite. Chi, per esempio, avrà più capacità cognitive, ma maggiore disabilità fisica, avrà diritto a meno ore di sostegno di chi, invece, si trova in una condizione inversa. «Partire da questa impostazione, vuol dire porre lo studente in una posizione deficitaria», conclude la Tarquini. Una concezione che finisce per frenare l’apprendimento e favorire nuove discriminazioni. Dividendo i cittadini di serie A da quelli di serie B.