Last updated on Gennaio 28th, 2021 at 01:07 pm
«Quella ragazza voleva abortire perché temeva che il figlio potesse avere una qualche disabilità, l’abbiamo convinta a non farlo e, pensate, il figlio è nato sano». Le parole, sicuramente pronunciate in buona fede al termine di una testimonianza contro l’aborto, certificano il fallimento di un certo tipo di battaglia per la vita. Sì, perché anche tra persone che si oppongono all’interruzione volontaria di gravidanza si è diffusa una mentalità, implicitamente, inavvertitamente, viziata dall’eugenetica. Una mentalità subdola e melliflua. Una mentalità capace di far pensare «non si può abortire mai, ma a maggior ragione con un figlio sano». Una mentalità prudente, che forse non vuole spaventare troppo l’interlocutore, che forse ha paura di volare troppo alto: che forse, senza ammetterlo, condivide il pensiero unico dominante. «L’aborto è sempre brutto, però tu pensa l’aborto di un bambino sano», e ci sarebbe da chiedere al sociologo statunitense Joseph P. Overton (1960-2003) cosa ne pensi.
No all’aborto, però…
Basta fare una rapida ricerca tra contatti amici, e le risposte lasciano senza fiato. Un esempio su tutti? «No no, l’aborto è terribile, però, certo, in caso di disabilità grave… Sai, non puoi condannare una persona all’infelicità».
Dopo essere stati virologi social con il CoVid-19 e giornalisti sportivi social con Diego Armando Maradona (1960-2020), ora è il momento di diventare bioeticisti social con la disabilità? Chi decide da quale livello di gravità della disabilità è ammissibile l’aborto? Esiste una griglia di valutazione come quella utilizzata per correggere i saggi brevi al liceo? “Se non potrà camminare, ma potrà parlare allora ok. Se potrà camminare, ma non sentirà scende nella classe inferiore”, e via dicendo?
Non è l’eugenetica insita nei Radicali a sconvolgere. In fondo non si può pensare di salvare un partito privandolo della propria ragion d’essere. È il concetto di «qualità della vita» enunciato con umanità cinica da chi dovrebbe essere per statuto genetico a favore della vita a lasciare di stucco. Perché la difesa della vita non ammette compromessi. E infatti è scomoda.
Non si può difendere solo alcune vite, quelle più promettenti, quelle più simpatiche, quelle più benestanti. La difesa della vita è una grande croce, perché implica il prendersi a cuore tutte le storie che nel cuore ci stanno. In modo particolare quelle più fragili, quelle lontane dai riflettori, quelle che si compiono nel silenzio discreto di migliaia di case italiane.
Vite difficili da raccontare
È giustissimo, ma facile, troppo facile, raccontare la storia di quella mamma che ha resistito alle pressioni per abortire e ha dato alla luce Karol Wojtyła (1920-2005). Un uomo così forte da aver cambiato il corso della storia. Se la Giornata mondiale delle persone con disabilità deve avere un senso, allora bisogna iniziare a rivolgere lo sguardo verso quelle famiglie che hanno detto sì alla vita trovandosi poi a mettere radici al Cottolengo.
Bisogna iniziare a lavorare seriamente per chi la disabilità la tocca con mano ogni giorno non tanto nel fisico o nella mente della persona cara, ma nel vuoto d’affetti che gli si crea attorno. Nella società dei diritti che è così impegnata a genuflettersi di fronte ai propri desideri da dimenticare volutamente nell’angolo i suoi membri più fragili.
Nonostante Marco Cappato, per restare in ambito politico, dica di battersi contro la visione dei «malati trattati come oggetti», la strada da percorrere per cambiare realmente le cose la indica la tanto criticata Chiesa Cattolica. «Si ritiene che una persona malata o disabile non possa essere felice, perché incapace di realizzare lo stile di vita imposto dalla cultura del piacere e del divertimento. Nell’epoca in cui una certa cura del corpo è divenuta mito di massa e dunque affare economico, ciò che è imperfetto deve essere oscurato, perché attenta alla felicità e alla serenità dei privilegiati e mette in crisi il modello dominante», ha detto Papa Francesco in occasione del Giubileo degli ammalati e delle persone con disabilità, il 12 giugno del 2016. «Meglio tenere queste persone separate, in qualche “recinto” – magari dorato – o nelle “riserve” del pietismo e dell’assistenzialismo, perché non intralcino il ritmo del falso benessere. In alcuni casi, addirittura, si sostiene che è meglio sbarazzarsene quanto prima, perché diventano un peso economico insostenibile in un tempo di crisi».
Solo così il mondo cambia
Non c’è progresso se non c’è un cambio di sguardo nei confronti della fragilità: «Quale illusione vive l’uomo di oggi quando chiude gli occhi davanti alla malattia e alla disabilità! Egli non comprende il vero senso della vita, che comporta anche l’accettazione della sofferenza e del limite. Il mondo non diventa migliore perché composto soltanto da persone apparentemente “perfette”, per non dire “truccate”, ma quando crescono la solidarietà tra gli esseri umani, l’accettazione reciproca e il rispetto».
Curioso poi che non si parli mai della disabilità dell’anima, ovvero di quella incapacità, oggi pandemica, di riconoscere nell’altro un fratello e non un oggetto da usare e poi gettare. O di quella incapacità di alzare lo sguardo verso il cielo, anche in senso pienamente concreto e laico, semplicemente per riconoscere che il mio “io” non è la misura di tutte le cose e di tutte le relazioni. Che oltre c’è altro.
Lasciarsi toccare, ferire, coinvolgere dalla fragilità è un impegno spaventoso, lo ammette anche il Pontefice, ma fa la differenza: «È sempre una questione di amore, non c’è un’altra strada. La vera sfida è quella di chi ama di più. Quante persone disabili e sofferenti si riaprono alla vita appena scoprono di essere amate! E quanto amore può sgorgare da un cuore anche solo per un sorriso! La terapia del sorriso. Allora la fragilità stessa può diventare conforto e sostegno alla nostra solitudine».
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