Last updated on Luglio 29th, 2021 at 02:22 am
La crisi demografica coinvolge gli Stati Uniti d’America e la Vecchia Europa.
Coinvolge la Cina neo-post-comunista piagata da decenni di politica del figlio unico, situazione ormai tragica cui recentemente il Partito unico sta cercando di porre ripari, pur mantenendo come un satrapo persiano il potere di vita e di morte sui propri cittadini-sudditi.
Coinvolge anche il Giappone, che per la prima volta dal 1950 è uscito dalla Top Ten dei Paesi più popolosi del mondo, in base all’ultimo censimento e alle stime dell’Organizzazione delle Nazioni Unite dell’ottobre 2020, divulgate di recente dall’agenzia di stampa nipponica Kyodo e riprese online da AskaNews pochi giorni fa.
Nell’autunno, infatti, il numero degli abitanti contava 126.226.568 persone, con un calo dello 0,7% rispetto al 2015, e con soli 840mila e 832 bambini nati nel corso dell’anno passato, certamente anche a causa della pandemia del CoVid-19.
A ciò si aggiunge anche l’invecchiamento progressivo e sempre più marcato della popolazione, con un numero elevato (in percentuale) di centenari e ultracentenari.
«Secondo i dati preliminari diffusi dal ministero dell’Interno nipponico, rispetto al 2015 la popolazione è calata di 868mila unità e si tratta del primo calo da quando si è iniziato a realizzare i censimenti quinquennali nel 1920», riporta Tgcom24 citando l’agenzia.
Colpisce anche l’accenno all’immigrazione, se «[…] a mitigare leggermente il dato, l’aumento di residenti non giapponesi nell’Arcipelago, il cui numero è arrivato a 2.556.183». A partire dal 2019, infatti, il governo giapponese, tradizionalmente restio a coinvolgere lavoratori stranieri nelle dinamiche economiche e sociali del Paese, si è trovato condotto giocoforza a integrare la manodopera locale, specie in taluni settori, con forza lavoro proveniente dall’estero, dopo aver tentato di coinvolgere i pensionati e la forza lavoro femminile del Paese.
Le ragioni di tale crisi demografica sono, presumibilmente, quelle che si registrano in tanti Paesi in cui essa si verifica. In parte sono economiche, ma in parte anche morali e culturali, dovute nel caso del Giappone all’inurbamento, all’abbandono sempre più spinto dello stile di vita tradizionale e rurale, alla “globalizzazione” delle giovani generazioni nelle megalopoli tecnologiche dai ritmi sempre più serrati e dal tessuto sociale sempre più sfilacciato, se «[…] la grande maggioranza della popolazione nazionale vive e lavora nella cintura industriale composta dal trittico Tokyo – Nagoya – Osaka, oramai diventato quasi un unico, sterminato cluster urbano, collegato dalla linea ferroviaria ad alta velocità».
Né si tratterebbe di un fenomeno del tutto recente, se «il picco di minori nascite in Giappone è stato raggiunto nel 2005, ma la problematica è entrata nella percezione pubblica specialmente dal 2014 a seguito di un report sulla costante decrescita della popolazione e i problemi a questa collegati pubblicato dal think tank privato Japan Policy Council (JPC) e scritto da Masuda Hiroya, ex governatore della prefettura di Iwate ed ex Ministro degli affari interni e delle comunicazioni».
Sempre meno giovani, per non dire quasi nessuno, rimangono nelle zone rurali a portare avanti attività agricole, di allevamento, di produzione artigianale tradizionale. «”Senza di noi, e senza più giovani a popolare questi luoghi, chi sarà più in grado di coltivare la terra senza l’ausilio delle macchine, di tessere vestiti a mano e di distillare il sakè nell’antico modo?” si chiede sconsolato [Noguchi-San]».
Pare di avvertire l’eco, per nulla giapponese e tutta italiana, tutta laghee, di Davide van de Sfroos e dei suoi paesani «spaesati», «chiodi della storia, ormai arrugginiti». Speriamo che tengano, almeno loro.