Un tragico anniversario, quello di oggi. Dodici anni fa, dopo giorni di agonia terribile, moriva Eluana Englaro (1970-2009). Il padre Beppino, dopo quasi un ventennio di battaglia giuridica, riuscì nell’intento di negarle le cure, affinché “non soffrisse più”. Ora, la fine di Eluana è l’inizio di una deriva eutanasica che, quest’anno, rischia di produrre una legge sul cosiddetto «suicidio assistito» e l’ennesimo referendum dei Radicali. Il clima generale è di palpabile rassegnazione, eppure dodici fa il caso fu oggetto di acceso dibattito in parlamento, culminato con il rifiuto del presidente della repubblica, Giorgio Napolitano, di firmare la legge che avrebbe salvato la vita a Eluana. Tra i politici che più si spesero in prima persona, dalla parte della vita della Englaro – e di ogni vita –, ci fu Gaetano Quagliariello, allora senatore del Popolo della Libertà (oggi milita sempre tra gli scranni di Palazzo Madama, nel gruppo di Coraggio Italia) che con «iFamNews» rievoca quei momenti drammatici, soffermandosi poi sull’attualità.
Senatore Quagliariello, dodici anni fa, davanti a tutti i suoi colleghi di Palazzo Madama, lei definì, senza mezzi termini, Eluana Englaro vittima di un vero e proprio omicidio. Potendo tornare indietro, lo rifarebbe?
Dissi testualmente: «Eluana non è morta, Eluana è stata ammazzata». E lo dissi perché la notizia della morte di Eluana piombò nell’aula del Senato mentre si stava discutendo un disegno di legge che avrebbe riconosciuto la qualificazione di idratazione e di alimentazione come sostegni vitali e la loro indisponibilità a un distacco per mano di terzi, fermando una macchina eutanasica alimentata dalla creatività giurisprudenziale. La concatenazione degli eventi che aveva portato a quel drammatico epilogo non poteva essere liquidata in parlamento con una banale espressione di cordoglio, quasi che Eluana fosse morta di freddo. Quella vicenda era destinata a segnare in profondità il nostro Paese. Non volevo che nell’aula del Senato andasse in scena una fiera dell’ipocrisia. Nonostante negli anni quella frase sia stata più volte travisata e strumentalizzata, a parità di condizioni la ripeterei. Il problema è che oggi le condizioni sono molto peggiorate.
Si è molto parlato di un suo incontro con Beppino Englaro. È realmente avvenuto? In ogni caso, cosa gli avrebbe detto?
Non ricordo di avere avuto con Beppino Englaro confronti o scambi lontano dai riflettori. Nel caso gli avrei ripetuto le stesse cose che dicevo davanti alle telecamere: che avevo profondo rispetto per la dimensione privata della tragedia che aveva colpito la sua famiglia, ma che pure esprimevo totale dissenso rispetto alla sua evoluzione. Sia sotto il profilo della “persona” Eluana, sia nella portata pubblica della vicenda. E gli avrei detto anche, da padre a padre, che non si può mai presumere quello che avrebbe voluto un’altra persona, soprattutto quando questa presunzione fatale conduce a conseguenze irreversibili come la morte. Non lo può fare nemmeno la persona che ti vuole più bene al mondo, come può essere un papà.
Oggi lo scenario legislativo sul fine vita è sicuramente figlio delle sentenze che, molti anni fa, hanno condannato a morte Eluana. Perché dal 2009 a oggi la deriva eutanasica non si è mai fermata?
Più di ogni altra cosa l’oggi è figlio della legge sulle disposizioni anticipate di trattamento, le cosiddette «dat». Dopo il caso Englaro, anche chi, come me, riteneva che non fosse opportuno legiferare su una materia così intima e delicata, ha dovuto prendere atto che l’assenza di paletti legislativi avrebbe spalancato le porte a un caos giudiziario. Se l’assunto è che lo Stato deve entrare nella vita delle persone il meno possibile e il minimo indispensabile, diciamo che i risvolti giurisprudenziali del dramma di Eluana avevano innalzato di molto l’asticella del possibile e dell’indispensabile. Il tentativo che compimmo allora, però, fu quello di arginare la deriva eutanasica che tracimava dai tribunali. Con la legge sulle «dat» si è fatto il contrario: si è aperto un varco il cui corollario, pochi anni dopo, è stato la sentenza della Corte costituzionale alla quale – va detto – il parlamento ha lasciato campo libero, nonostante l’esito ampiamente annunciato.
Cosa ne pensa del disegno di legge sul cosiddetto «suicidio assistito», così come esso è allo stato dell’arte?
Tutto il male possibile. Nonostante il lavoro compiuto da diverse forze parlamentari per correggerne alcune storture, il testo di legge per com’è adesso, anche a causa di un lessico volutamente aleatorio per non dire evanescente, arriva a travolgere gli stessi paletti messi dalla Consulta. Si parla ad esempio della possibilità di ricorrere al suicidio assistito in caso di «condizione clinica irreversibile». Non è difficile prevedere che in questa definizione potrà rientrare di tutto: anche il diabete, per dire, è una condizione clinica irreversibile.
La sentenza della Corte costituzionale del 2019, in un certo senso, obbliga il parlamento a legiferare. È possibile, a suo avviso, dare vita a una legge che accolga i rilievi della Consulta e, al tempo stesso, eviti l’impianto eutanasico?
Come già detto, ero fra quanti ritenevano che il parlamento dovesse evitare che si arrivasse a una sentenza costituzionale la quale, a differenza di una legge, è difficilmente reversibile. Detto ciò, prendendo atto che ormai la sentenza c’è, bisognava lavorare sui paletti che la Consulta aveva fissato, in alcuni casi superiori alle aspettative, sfruttandoli al massimo per limitare i danni. E invece, per adesso, il testo di legge è andato nella direzione esattamente opposta.
Tra un paio di settimane sarà proprio la Corte costituzionale a pronunciarsi sulla legittimità del referendum dei Radicali: la materia non è la stessa del disegno di legge Bazoli, ma è complementare. Un eventuale approvazione della consultazione referendaria che scenario produrrebbe?
Guardi, al di là del merito sul quale la mia opinione è facilmente intuibile, nutro seri dubbi giuridici sulla tecnica con la quale il quesito è stato formulato. Vedremo cosa deciderà la Corte, nell’auspicio che non voglia contraddire la propria giurisprudenza. Qualora invece il quesito fosse ammesso, non ci tireremo indietro. E, visto che siamo nell’anniversario della morte di Eluana, mi piace ricordare che all’epoca cominciammo quella battaglia in pochi e con una opinione pubblica radicalmente avversa ma, nonostante l’esito infausto e un sistema mediatico certamente non favorevole, riuscimmo a persuadere delle nostre buone ragioni una larga parte del Paese.
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