Cresce a Seoul l’onda antifemminista contro la misandria

Alla vigilia delle elezioni presidenziali, i giovani maschi coreani accusano le donne di discriminazione

Seoul, i giovani

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Moon Jae-in, figlio di immigrati nord-coreani, cattolico, appartenente al Partito Democratico Unito (o Minju) di orientamento liberale e centrista, in precedenza avvocato specializzato nella tutela dei diritti umani, è il presidente della Corea del Sud dal 2017.

In quell’anno, durante la campagna elettorale, Moon Jae-in si era presentato alla popolazione come «il presidente femminista», aveva promesso la difesa strenua della parità di genere e aveva ottenuto grandi consensi nell’elettorato femminile che si è poi rivelato fondamentale per la sua vittoria.

Oggi, quasi alla vigilia delle nuove elezioni presidenziali previste per il 9 marzo, questa posizione sembra rivoltarsi contro Moon, che in base alla legge coreana non potrà essere rieletto a un secondo mandato ma sosterrà il candidato democratico Lee Jae-myung, contro il ministero per l’Eguaglianza di genere e la Famiglia da lui voluto e contro il suo partito, il Minjiu, in favore piuttosto dei conservatori del Potere dei Nazionali rappresentato da Yoon Seok-youl.

A scagliarsi contro ciò che è considerato un femminismo imperante che discrimina gli uomini è Bae In-kyu, leader del gruppo antifemminista Man on Solidarity, che a Seoul ha arringato i passanti, vestito e truccato come Joker nel film Batman, dal tetto di un’auto in sosta, allo scopo dichiarato di sabotare una manifestazione femminista in corso nelle vicinanze.

Lancia slogan pesanti, Bae, gridando per esempio che «Il femminismo è una malattia mentale! Un male della società! Abbasso le odiatrici di uomini! Abbasso la misandria!». Per strada i gruppi che lo ascoltano sono per la verità sparuti, ma è online che le sue posizioni trovano eco e raccolgono finanziamenti cospicui in tempi molto rapidi: qualche mese fa pare abbia ottenuto donazioni per 9 milioni di won (circa 7mila e 500 dollari statunitensi), nel giro di 3 minuti. Il canale YouTube 신 남성연대, New Men’s Solidarity, al momento conta più di 450 mila iscritti.

Né Bae In-kyu sembra essere solo in questa battaglia contro le femministe, il suo attivismo violento e provocatorio pare piuttosto incarnare un’onda ben più vasta presente nella società coreana, dove la coperta troppo corta delle risorse economiche fatica a essere spartita fra tutte le componenti sociali. I numeri in realtà non evidenziano uno strapotere femminile, con salari nettamente inferiori per le donne rispetto agli uomini e posizioni ai vertici aziendali assolutamente marginali, pari al 5,2% del totale. Eppure il 79% dei giovani maschi coreani in un sondaggio realizzato l’anno scorso, afferma The New York Times, si dice vittima di discriminazione di genere. Più del 76% dei ventenni e il 66% dei trentenni è contrario al femminismo. «”Perché ci sono dozzine di università solo per donne e nemmeno una solo per uomini?”, si chiedono. In più, dicono, in queste università si insegnano materie come legge e farmacia, che portano a carriere ben pagate».

È la crisi finanziaria, che con i prezzi stratosferici delle abitazioni, la scarsità di posti di lavoro e un divario del reddito sempre più spinto agita le acque e rimesta nel torbido, rendendo qualunque “classe” o “gruppo” ben identificabile che si affacci sulla scena economica un nemico reale o potenziale in una lotta spietata alla conquista del mercato.

Non sfugge una riflessione ulteriore, che dovrebbe invitare alla cautela chi cavalca con cinismo la tigre della cancel culture, del wokeismo, del #Metoo spinto al parossismo: se il divide et impera può andare bene per un po’, innescare il conflitto sociale a ogni costo non può funzionare per sempre e rischia anzi di ritorcersi contro chi lo propugna, come una bomba che scoppia fra le mani. È ciò che fa per esempio chi accomuna gli slogan di questa ondata antifemminista a quelli di una «certa Destra» in Occidente, senza fare nomi, senza citare figure o partiti politici precisi, solo accusando questa «certa destra» di considerare le donne favorevoli all’aborto come «distruttrici della famiglia» e le femministe come «suprematiste femminili».

Come mostra il caso della Corea del Sud, la strumentalizzazione politica a scopo elettorale di istanze fossero pure legittime non paga all’infinito. Il tempo scorre e la ruota gira, cinque anni passano in fretta.

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