Condannato a morte un pastore protestante in Pakistan

L’accusa di blasfemia, 10 anni di galera e un verdetto scontato per un cristiano perseguitato da Lahore

Zafar Bhatti

Image by Naila Inayat

Zafar Bhatti ha 56 anni, dieci dei quali trascorsi dietro le sbarre del carcere di Adiala a Rawalpindi, in Pakistan. Bhatti è un pastore cristiano, protestante, e pertanto non sorprende che l’accusa a suo carico sia quella di blasfemia. In particolare l’uomo, che figura nell’elenco online della United States Commission on International Religious Freedom (USCIRF) dei detenuti per motivi religiosi, secondo un delatore anonimo avrebbe inviato messaggi di testo offensivi nei riguardi della madre del profeta Maometto da un cellulare, che peraltro successivamente è risultato non fosse suo.

Dal 2012, in ogni caso, il pastore Bhatti, diabetico, sofferente di disturbi cardiaci, è in galera e non sono mancati ai suoi danni le torture per farlo confessare, un tentativo di avvelenamento nel 2013 e il coinvolgimento nell’attentato messo in atto nel 2014 da una guardia carceraria su «ispirazione divina», in cui era stato dato per morto.

Non solo la polizia avrebbe torturato il pastore, ma anche i prigionieri musulmani di Adiala, per ottenere che si convertisse alla religione islamica.

Bhatti è stato condannato all’ergastolo il 3 maggio 2017 ai sensi degli articoli 295-a e 295-c del Codice penale pakistano per aver disonorato il profeta Maometto e sua madre. Numerosi appelli all’Alta Corte del Paese presentati dalla difesa sono stati ripetutamente rimandati, come testimonia anche il rapporto stilato dall’USCIRF, e il 3 gennaio è giunta la condanna a morte da parte del tribunale distrettuale, cui l’Alta Corte di Lahore ha deferito il caso Bhatti nell’ottobre scorso. Gli avvocati della British Asian Christian Association, che da dicembre ha assunto la rappresentanza del religioso, intendono fare ricorso contro tale verdetto.

I punti oscuri della vicenda sono numerosi. Innanzitutto la SIM card del cellulare da cui sarebbero partiti gli SMS incriminati non era intestata a Bhatti, bensì a una collega di religione musulmana, Ghazala Khan, processata nel 2013, ugualmente per blasfemia, e poi rilasciata su cauzione. Ben difficilmente, in Pakistan, i cristiani accusati di atti blasfemi possono godere di tale concessione.

La denuncia dell’esistenza di tali messaggi, inoltre, dapprima rivolta contro anonimi, è stata presentata a suo tempo da un leader religioso musulmano del luogo, che ha minacciato di farsi giustizia da sé con la propria organizzazione, qualora non fosse stato individuato un colpevole e questi non fosse condannato precisamente in base all’articolo 295-c del Codice. Non si tratta di un cavillo, dal momento che l’articolo 295-a non prevede la condanna a morte, come invece il 295-c. Con un’aggravante: le offese alla madre del Profeta, secondo la legge sulla blasfemia del Pakistan, non ricadrebbero sotto l’articolo c, ma sotto l’articolo a.

Tutto fa pensare a una vera e propria persecuzione di natura religiosa contro il pastore protestante, che «[…] prima dell’arresto vendeva medicinali e spesso andava di porta in porta con la sua presentazione, leggendo la Bibbia e pregando con le famiglie nelle case che visitava» e aveva inoltre fondato una piccola ONG di assistenza ai poveri chiamata Jesus World Mission. E che si tratti di persecuzione lo suggeriscono anche le parole di Ilyas Samuel, attivista cristiano per i diritti umani, che mostra sconcerto per la condanna a morte di Zafar Bhatti, definita «immotivata», e afferma: «È triste sentire questa notizia. Mi dispiace che l’uso improprio delle leggi sulla blasfemia sia diventato così comune che viene esercitato come strumento di vendetta contro persone innocenti».

La libertà su cauzione ottenuta il 5 gennaio da Nadeem Samson, un altro cittadino pakistano di religione cristiana accusato in base alla legge sulla blasfemia nel novembre 2017, se da un lato mostra uno spiraglio di giustizia dall’altro non fa che riconfermare l’uso strumentale e persecutorio di tale legge.

Joseph Jansen, presidente di Voice for Justice, organizzazione in favore dei diritti umani, ha dichiarato infatti: «Siamo felici di aver ottenuto la libertà su cauzione per Nadeem Samson. In realtà la disputa con il denunciante riguardava questioni di denaro e di proprietà. La maggior parte dei casi di blasfemia sono basati su false accuse, in seguito a litigi familiari o pregiudizi religiosi».

Nella nota rilasciata all’agenzia Fides l’avvocato musulmano Saif-ul-Malook, legale di Nadeem Samson e già difensore di Asia Bibi, ha affermato: «Si tratta di una decisione storica della Corte Suprema del Pakistan. Questo giudizio fungerà da precedente per aiutare altre vittime di accuse di blasfemia. I tribunali pakistani respingono regolarmente i ricorsi su cauzione per le vittime della legge sulla blasfemia, in particolare quando le accuse sono riferite all’articolo 295 (c). Rendiamo merito al giudice Syed Mansoor Ali Shah della Corte Suprema del Pakistan per non aver lasciato che i pregiudizi religiosi lo scoraggiassero dall’esercitare giustizia».

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